Sarà
un Paese
Nicola
Campiotti
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La locandina del film Sarà un Paese di Nicola Campiotti |
In
un universo sprofondato in una crisi planetaria e non solo economica, dominato
dalle immagini e da un paesaggio artificiale, si percepisce l’urgenza
sotterranea e troppo a lungo elusa e rimandata, di fare chiarezza, di un
ripensamento sulle tematiche, le modalità e i
significati dei linguaggi espressivi, in ambiti come la letteratura, l’arte
e il cinema. Troppo spesso, si tratta di un sistema gerarchico, chiuso e
limitato alle generalizzazioni e alle rassicuranti conferme, invece di cercare
e privilegiare un’intesa e un dialogo con il pubblico.
La
storia, in bilico tra realtà e
favola, mitologia e attualità, memoria e presente, e’ un viaggio reale e simbolico dei due
protagonisti, Nicola e il fratello minore Elia, che parte da un rapporto
intimo, quotidiano e si apre alla società, a una rilettura della modernità.
Tale
evocazione e rilettura comprende temi forti, una riflessione teorica e sul
campo delle problematiche attuali, non solo italiane ma universali : la critica
a un certo consumismo, l’omologazione dell’immaginario, il recupero a una dimensione più rispettosa
e attenta del mondo e del nostro pianeta; lo sfruttamento delle risorse e della
natura, i cambiamenti climatici, i disastri ambientali, pongono questioni
inedite, problematiche quasi del tutto sconosciute e mai affrontate.
Sarà
un paese si trasforma e si configura in un'opera collettiva, come
sperimentazione e costruzione di uno spazio e un tempo comuni, una dimensione
corale.
Non
c’è più da
recuperare un passato, non c’è più da
controllare un futuro. Progresso lineare e tradizione cristallizzata, non
interessano a Nicola Campiotti che ad ognuno di noi, pur nella diversità,
attribuisce uno sguardo rivolto all’avvenire, consapevoli che senza la gioia, la leggerezza e senza la
poesia del bambino, non è ipotizzabile
un mondo nuovo e diverso.
Il
bambino è condotto
dal fratello, sulle orme di Cadmo, il detentore e custode del primo alfabeto.
La
dimensione mitica corre parallela alle storie reali del nostro paese, ci
perdiamo in un labirinto di vicende umane e divine, di immagini naturali e
metafisiche, che occupano tutto lo spazio della narrazione.
Senza
la retorica, l’ideologia e la spietatezza dell’impegno caratteristico degli anni ’70, Nicola Campiotti, riscopre la dimensione
etica della narrazione filmica, che è strutturalmente
legata alla condizione umana e alla capacità di reinventarsi.
Link
e contatti:
Contattare
a distribuzione.indmr@gmail.com
per ricevere il film.
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Il regista ed Elia |
Il
tuo film è stato nominato dall’Unicef e scelto come materiale didattico di
studio e approfondimento per le scuole. Anche se poi non è certo solo un film
per bambini, intuire e condividere la loro autenticità e il potere costante
dell’immaginazione dovrebbe essere un sforzo comune. Questa tua personale
visione, come condiziona ed arricchisce il tuo percorso creativo, in un mondo
che il regista Woody Allen considera cinico e spietato, destinato alla scomparsa
totale e definitiva?
Il
mondo è quello che facciamo di lui, il risultato in continua trasformazione
delle nostre azioni. Prima che film-maker, mi considero come un suo cittadino,
che non può fare altro che assumersi le proprie responsabilità. Il continuo stupore
e la meraviglia costante del bambino, che si rinnovano ogni giorno,
rappresentano l’esempio autentico, l’universale strumento di traduzione ed
interpretazione del reale e la possibilità intrinseca d’interagire, farne
parte.
Avendo studiato Filosofia, questo incanto
rimane il leitmotiv perenne anche rispetto alla società civile di Atene nel
terzo secolo o al modello della civiltà romana di Marco Aurelio. Contro ogni
retorica debole della rinuncia, l’esperienza della leggerezza e l’irriducibile
poetica dell’infanzia, ci permettono di scoprire la resistenza etica.
Come
mi ha insegnato Elia, il bambino protagonista, che trasforma ogni volta, la
sconfitta del dolore e della sofferenza, in affermazione di riscatto, in
scoperta della libertà comune di poter essere. Contro il cinismo e l’amarezza
di Woody Allen, mi riconosco invece nella visione di speranza di Gandhi, che
afferma un’idea radicalmente rivoluzionaria, credendo e affidandosi ad ogni
individuo, rendendolo partecipe del destino dell’intera umanità.
Un
pensiero vivo e in diretta continua con le trasformazioni dell’esistenza.
Lo
sguardo del bambino ha molti precedenti nella storia del cinema: il potente
dramma di “Germania anno zero” di Roberto Rosellini, uno dei capolavori
della Nouvelle Vague, “Quattrocento colpi” del 1959 di Francois Truffaut
che anticipa e racconta il disagio e l’incomunicabilità tra adulti e
adolescenti, fino al film retorico, auto riferito ed eccessivamente strutturato
di Veltroni: “I bambini sanno”. Un tempo di lavoro e una convivenza con
il bambino attore di alcuni anni di lavorazione per il tuo film ti ha aiutato a
trovare un linguaggio comune e tradurlo poi, in narrazione?
Ogni
epoca di crisi, di vuoto morale, ha avuto i suoi grandi interpreti che si
confrontavano criticamente e fino in fondo con la società. Nel rinnovare questa
ricerca di senso, ho riflettuto costantemente sulla fondamentale esperienza
condivisa durante la lavorazione ed ora mi viene in mente un verso della
canzone: “Amico fragile” del cantautore Fabrizio De Andre’: “Ero molto più
curioso e molto meno stanco di voi”, che racconta moltissimo di lui e di come
voleva affrontare il mondo.
Dall’infanzia,
dal piccolo Elia ho cercato di assimilare, d’imparare per il mio lavoro, a
controllare la stanchezza e a conservare e potenziare l’energia.
Tuo
padre stesso, Giacomo Campiotti, esordì con il lungometraggio: “Corsa di
primavera” del 1989, che racconta la vita di provincia attraverso gli occhi dei
bambini. Condividete la stessa visione del mondo e la convinzione che fare
cinema sia anche un modo per prendere una posizione precisa rispetto al sociale
e un’arma pacifica e poetica di rivolta?
Mio
padre, grandissimo genitore prima ancora che intenso regista, che si definisce
“maestro mancato”, si trova, ed e’ stato sempre in linea diretta con l’infanzia
e
l’innata capacità dei bambini di essere sempre
partecipi, presenti. Da questa carica umana deriva il loro dono naturale, la
capacità quotidiana di saper trasformare il dolore e la tristezza in energia e
carica vitale.
Credo
profondamente nel cinema come strumento per incidere sulla realtà. Quando il
mio film e’ trasmesso nelle scuole, questo mi rende orgoglioso e mi commuove,
come è successo nel caso di Don Ciotti e nella sua associazione ‘ Libera’, dove
hanno voluto creare un bando, rivolto ai ragazzi, per la creazione di un nuovo
capitolo del film. Un esempio di coinvolgimento autentico e aggregazione
possibile attraverso la creatività.
In
questo senso, Sarà un
Paese si trasforma in un progetto infinito, che s’intreccia con la
vita, le riflessioni condivise e il racconto delle esperienze reali.
Gli
attori di Sarà un Paese, non sono tutti professionisti, ma scelti
volutamente in giro per l’Italia, come autentici testimoni del reale. Come hai
condotto la loro recitazione? Avevate un testo scritto in comune come
sceneggiatura o si basava sull’improvvisazione neorealista? Inquadrature e
girato, ridefiniti e tagliati poi, in fase di montaggio?
E’
stata una scelta precisa e consapevole quella di lavorare e girare con attori
non professionisti o di teatro: in questo senso, è stato un vero esperimento
con linguaggi diversi ed espressioni differenti, un film che diventa un
documentario, poi un monologo teatrale off e poi di nuovo storia inventata: una
confluenza di ambiti narrativi e pluralismo di generi.
Ad
Elia, ho solo chiesto di mettersi in ascolto all’inizio con le persone, per
guadagnare la loro fiducia. Solo successivamente tornavo per fare domande,
senza l’elemento intrusivo ed invasivo della macchina da presa e chiedevo loro
di parlare, come se dovessero interloquire con un fanciullo. La domanda comune
era: “Come racconteresti quello che mi hai detto, in pochi minuti e a un
bambino?”
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Elia in una scena del film |
Nonostante
i numerosi premi e riconoscimenti di pubblico e critica, la distribuzione di Sarà
un Paese non è stata diffusissima e prolungata. Un destino comune ad un
cinema indipendente e di qualità in Italia? Problema che all’estero è meno
sentito, anche se a Hollywood c’è una sacrale ovazione per le grandi produzioni
e dagli effetti speciali, con le solite star e le stesse sceneggiature. Pochi
produttori ed insufficiente volontà d’investire in film di esordienti e con
certi contenuti non in linea con prodotti più commerciali.
E’
vero, la distribuzione non e’ stata prolungata e capillare ma il film ha
comunque una sua dimensione e vita propria, un percorso autonomo e poi
purtroppo non invecchia, parallelamente a un’Italia che stenta a cambiare.
Ad
esempio in Francia, diversamente, i kolossal americani pagano più tasse, per
finanziare i progetti indipendenti, di ricerca e di qualità. Devo anche
aggiungere che nonostante tutte le difficoltà e reali impedimenti per quanto mi
riguarda, ogni successiva proiezione è stata fonte inesauribile di riflessioni,
approfondimenti e riletture, che ne fanno un’opera aperta, in divenire, da
proporre ogni anno nelle scuole.
Quali
sono i tuoi modelli e riferimenti nella storia del cinema? E le tue fonti
d’ispirazione? L’associazione a De Sica e a “Miracolo a Milano”, sorge
spontanea.
Il
cinema italiano e’ un crocevia fondamentale per tutti. ‘Otto e mezzo’ di
Fellini, devo averlo rivisto, moltissime volte, per cogliere i suoi particolari
narrativi, visivi e psicologici. Il neorealismo rappresenta una scuola eterna e
vitale per tutti i registi. Personalmente però, il mio film di riferimento
rimane: “La gabbia dorata”, “La jaula de oro” del 2013, del regista Diego
Quemada-Diez, che racconta dell’immigrazione spagnola verso gli Stati Uniti,
vista e vissuta ancora una volta da tre bambini.
Sarà
un paese è anche il risultato notevole di un lavoro di gruppo e di
sostegno. C’è qualche autore, compositore o fotografo italiano o straniero con
il quale ti stimolerebbe a lavorare per il futuro?
Il
cinema e’ sempre un lavoro collettivo, un’opera corale.
Il
talento individuale, la storia che prende corpo, hanno infatti senso e crescono
in un quadro in espansione, un insieme di rapporti coltivati, di cooperazione
fondamentale e confronto continuo. Ed è sempre lo strumento della curiosità che
attingiamo ed impariamo dai bambini, a renderci disponibili umanamente e
partecipi poi del cambiamento. Il coraggio professionale e creativo é nella
capacità di vedere oltre. Basta ricordare Giacomo Leopardi, quando scrive
“L’Infinito”, con una visione limitata dalla siepe.
Hai
una laurea in Filosofia e un’esperienza giovanile addirittura con Wim Wenders.
Cosa consigli a un giovane che oggi ha ancora il coraggio d’intraprendere il
lavoro del regista? Scuola di cinematografia, sperimentare in altri ambiti
artistici, vivere all’estero? Lavorare per la televisione e il teatro?
Rispetto
a molti amici partiti per l’estero, ho deciso di rimanere. All’inizio si è
soli, ma consiglio di creare sempre un gruppo di riferimento, una squadra
affiatata con la volontà precisa di arrivare a fare, concretizzare un’idea,
senza perdersi solamente nel lavoro teorico. Per esempio, nel mio caso, posso
citarne uno fra i più validi, il mio amico fotografo, Leone Orfeo, che ha frequentato
la scuola sperimentale ed è stato allievo del grande maestro Peppino Roturno.
Rapporti
umani, prima che professionali, che funzionano da collante, da palestra di
vita, perché lo studio articolato e le conoscenze differenti, hanno senso per
un futuro regista, nel confronto aperto e nella preziosa collaborazione con
musicisti, scrittori, tecnici e scenografi.
L’Italia
che hai rappresentato si riconosce nell’eterno immobilismo gattopardesco e
contemporaneamente nei miracolosi cambiamenti e risorse inaspettate? Credi
comunque ad una possibilità di riscatto e di reale trasformazione, nonostante
la disoccupazione crescente ed un’ancestrale chiusura verso le nuove culture e
agli stranieri, considerati per sempre extra comunitari?
L’Italia,
come ho sempre creduto, è sempre stata e sarà il risultato di quello che
sapremo fare noi. Sarà un
Paese, nonostante dei momenti drammatici, come la morte del ragazzo
sulla macchina mentre lavora o la speculazione sugli inceneritori, non è un
film che nega la speranza per il futuro. Personalmente, continuo a crederci.
Credo nella scuola pubblica, credo nelle sue risorse diverse, nella difesa del
territorio e credo anche nell’educazione civica, nella lotta alla corruzione,
all’ammirazione verso eroi come Falcone e Borsellino.
Altrimenti
non avrei iniziato ed immaginato questa infinita avventura.
Progetti
futuri?
Molti,
almeno tre, che innaffio e coltivo e che voglio sottoporre a dividersi
produttori.
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