“I cieli tempestosi
di Francesco Cianciotta”
Francesco Cianciotta; foto di Michele Malnati, post produzione di Francesco Cianciotta |
Il
900’ è stato il secolo dei grandi fotografi. Richard Avedon, Cecil Beaton,
Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Erwitt Elliot, Robert Mapplethorpe,
Bruce Weber , sono una parte dei pionieri di un nuovo modo d’intendere la
fotografia, che oltre portare avanti una ricerca tecnico espressiva, indaga ed
è testimone di una realtà in continuo mutamento, interagendo in diversi ambiti
come la moda, la pubblicità, la cronaca, l’urbanistica, il cinema e il sociale.
Negli
anni 80’, parallelamente ad una rinascita della pittura, dopo il predominio
dell’arte minimalista e concettuale, gli artisti stessi, appoggiati dagli
addetti ai lavori e dal collezionismo, s’impadroniscono del mezzo fotografico
come strumento privilegiato del fare arte. Autorizzati e legittimati dalle
sperimentazioni precedenti video arte, arte ambientale, performance, happening,
che avevano esaltato il mezzo fotografico, contribuiscono alla consacrazione ma
anche al ribaltamento e all’ambiguità, dell’identità stessa di fare ed
intendere la fotografia.
In
questo clima effervescente ed eccitante, che sarà poi l’anticamera della crisi
economica sociale e del degrado culturale, avvenuto poi, s’inserisce anche
l’opera fotografica di Francesco Cianciotta. La sua scelta di trasformare la
sua costante ed eterna passione in linguaggio professionale e di ricerca,
parallelamente ad altre esperienze professionali di manager e di formazione,
gli consentono la libertà e l’autonomia necessaria per operare fuori dal coro.
Pur essendoci continui casi ed esempi di grandi artisti, del presente e del
passato, (come il medico Alberto Burri, l’ingegnere Fausto Melotti o l’avvocato
Anselm Kiefer) in Italia, i cambiamenti e le esperienze differenti e parallele
vengono viste comunque con sospetto e diffidenza.
Ancora
prima di esporre in personali e collettive in Italia e all’estero, Francesco
Cianciotta decide di sperimentare e misurarsi in diversi generi: dal paesaggio
al ritratto, senza preclusioni o limiti, connotando e contraddistinguendo le
sue opere con uno stile e un’identità narrativa precisi e particolari. Sia che
utilizzi il bianco e nero o il colore, sia che si tratti di fotografie
realistiche o surreali, la ricerca del dettaglio, dell’elemento umano e l’uso
espressivo della luce, caratterizzano tutta la sua produzione. I risultati
inducono ad un suo personale elogio alla lentezza, indipendentemente che si
tratti di una ragazza sdraiata sul pavimento in una stanza ristretta che sembra
scivolare o di ombre nere di passeggeri in attesa in aeroporto o di uno zebù,
che appare misteriosamente in primo piano, spiccando sulle fragili costruzioni
in legno di un villaggio africano. La realtà è interpretata e riprodotta da
Cianciotta attraverso il passaggio dall’oscurità alla luce: infatti sono i
cieli, a rimanere impressi nella memoria e a dare senso, corpo, come in una scenografia
teatrale. Sembra quasi che quei cieli tumultuosi, affollati di nuvole, resi
mobili dal vento e da improvvisi mutamenti atmosferici, siano creati dal
fotografo a parte, con trucchi ed esperimenti di Photoshop e sovrapposizioni,
tanto quanto appaiono densi e profondi, come nei quadri romantici per
eccellenza di David Caspar Freidrich. Per contrasto, il soggetto in primo
piano, il ragazzo di colore che ride ballando o la fila di grattacieli in
ripetizione, sono resi in modo diretto ed essenziale senza indulgenze o
compiacimenti teorici o tecnici. La fotografia vive una fase di autoesaltazione
e di sfaldamento, fagocitata dal digitale, dalle tendenze effimere e svuotate
di contenuti forti e dall’usura dell’immagine causata dai media. Francesco
Cianciotta, pur consapevole dei rischi, continua il suo percorso personale e di
ricerca, di luce o ombre, di indagine di linguaggi e libertà espressiva. Come
il sentiero di una sua opera che si perde in lontananza sulle montagne, verso
un cielo poco terso, lasciandosi alle spalle la luce accecante della prateria.
http://www.francescocianciotta.com/
![]() |
Dalla serie "Un viaggio a parte" - Aeroporto Charles De Gaulle - Parigi, Luglio 1997 |
Hai sempre sostenuto che il mezzo
tecnico e l’apparecchio non sono fondamentali per il risultato finale. Come nel
caso della serie d’immagini scattate all’aereoporto, realizzate con una
macchinetta di plastica usa e getta, senza nessun pregio o valore, che ti ha
consentito di non dare nell’occhio e non infastidire l’interlocutore. Sei
sempre convinto di questa tesi a fronte dell’esperienza generale?
Si, certamente, il mezzo è solo
funzionale a quello che ciascuno si prefigge come risultato. Il lavoro negli
aeroporti, racchiuso nel volume “Un Viaggio a Parte” edito da Motta Editore, partiva
anche e soprattutto da un’urgenza di fotografare che non s’assopiva mai ed è
stata sospinta e ha preso consistenza, anche quando facevo tutt’altro. E’ stato
proprio “il manager errante” ad eleggere gli aeroporti a soggetti fotografici
con un mezzo quasi invisibile, un giocattolino che mi permetteva però discrezione
e la più ampia libertà di scatto. Quell’esperienza fotografica ha dato
fondamento ad una pratica che si basa sulla ricerca dell’eccezione più che
sulla costruzione di una serie di regole. Per far ciò era necessario lavorare
con mezzi di bassa qualità, che è l’altra parte consistente della mia pratica
di ricerca. Attualmente sto lavorando con il cellulare e più che a usarlo come
una “estensione” della macchina fotografica “tradizionale” sono interessato a
individuare e sviluppare quello che è il suo linguaggio specifico.
Bruce Weber racconta che il
risultato finale non è mai garantito e programmabile a tavolino. Infatti, anche
quando lui fotografa i suoi protagonisti, la componente ironica ed umana
rimangono le variabili costanti, il mistero sotterraneo che distingue l’opera
speciale. L’immensa fotografa Diane Arbus, sua grande amica, gli ripeteva che i
soggetti scelti e fotografati sono legati poi a te per sempre. Caso ed
esperienza, come essi influiscono nel rapporto con il soggetto?
Nel caso della ricerca personale,
come prima ho accennato, sono molto interessato a ricercare le “eccezioni” e
quindi alla ricerca di immagini in qualche modo casuali ma che corrispondano al
modo in cui guardo. Per fare ciò lavoro molto spingendomi ai limiti sia del
linguaggio che delle possibilità tecniche del mezzo che sto utilizzando: le due
cose in realtà si intrecciano e si alimentano a vicenda. Nel caso della
committenza il seguire e dover rispondere ad una indicazione precisa, il dover
tenere in considerazione le esigenze dell’“altro da sé” mi ha sempre stimolato
contribuendo ad allargare i miei orizzonti visivi e mentali. Nella serie
“Epoché”, nella quale ho ritratto una quarantina di donne incinte, alla fine le
immagini più riuscite erano proprio quelle che mi venivano suggerite dalle
committenti in una corrispondenza d’intenti umana e visionaria.
Dalla serie "Etiopia" - Zebù - Prefettura di Robe, Giugno 2014 |
Gabriele Basilico rimane un punto
di riferimento fondamentale per chi si vuole confrontare con l’architettura e
l’aspetto urbano della città. Cosa distingue e accomuna il tuo modo di
fotografare le città rispetto a questo grande maestro?
L’intenzione! Gabriele Basilico
rimane un maestro indiscusso per ognuno di noi: lui parte da un rigore
geometrico, una sintesi visiva e mentale dettata da una ricerca architettonica,
urbanistica che dà un senso agli aspetti meno evidenti del suo interesse
antropologico. Le sue città parlano degli uomini senza farli apparire. Nel mio
caso, la città è intesa come uno degli strumenti d’indagine e di relazione con
la realtà, per far riemergere la mia visione personale, il modo per comunicare
con l’interlocutore e con il mondo. Anche se ho fotografato le città, come
nella serie “Concrete Pause”, in realtà fotografo tutto perché guardo tutto.
Il tuo percorso come manager sarà
comunque stato fondamentale per accrescere e sviluppare le tue soluzioni ed
intuizioni narrative e visive. Oggi più che mai, qualsiasi creativo deve
confrontarsi e avere una conoscenza panoramica ed approfondita in diverse
discipline ed ambiti. Cosa consigli a un giovane fotografo che vuole essere un
professionista ed essere considerato “un artista” poi?
L’irruzione del digitale e dei
social network ha prodotto una proliferazione immensa di immagini non
necessariamente supportate dalla qualità: siamo immersi in una “marmellata” e
diventa difficile anche solo formare il proprio sguardo. Quindi, al di là delle
scuole specifiche o dell’importanza di viaggiare, rimane essenziale trovare la
propria strada, arrivare alla propria immagine originale, quella che è più
vicina a chi si è e che contraddistingue il proprio modo di guardare. Quando mi
domandano consigli come questo suggerisco sempre di buttare via il 95% del
proprio lavoro e di ripartire da ciò che rimane per rendersi consapevole di ciò
che si guarda e di come si guarda. La fotografia è una malattia compulsiva che
rischia di portare lontani da sé stessi e va tenuta a bada.
Sei in partenza per l’Etiopia. La
condizione cosmopolita e di eterno viaggiatore sono una scelta di vita
obbligatoria, nonostante internet e la globalizzazione. Si può trovare
ispirazione e proseguire nella ricerca, chiusi nella camera oscura come sulla
vetta di una montagna?
Sì, certo, i risultati però
saranno inevitabilmente diversi e dipende sempre un po’ da dove si parte. Nelle
stanze d’albergo di “Impermanent Rooms” o sul bordo di un cratere dell’Etna di
“Genius Loci”, ho sempre scattato (con mezzi diversissimi!) con la consapevolezza
che ogni immagine speciale che avrei trovato era il risultato di un processo
interiore di conoscenza e di riflessione che non necessita di sovrastrutture o
sofisticati materiali di supporto. Nel mio caso lo strumento fondamentale che
supporta naturalmente il mio percorso fotografico è la meditazione che pratico
da molti anni.
![]() |
Dalla serie "Epoché" - Amelie - Quebec, Luglio 2002 |
La tua donna incinta, posizionata
nei cespugli neri ed alti, sembra una citazione dell’opera di Marcel Duchamp, a
sua volta ripresa dal nudo dell’”Origine del mondo” di Gustav Courbet. Quanto è
importante ed influisce conoscere la Storia dell’Arte?
Quanto è importante non lo so, di
sicuro influisce molto. Sono cresciuto in una famiglia dove la passione verso
la cultura e l’arte era cosa naturale. Inconsciamente, più che altro, i
riferimenti rimangono ancestrali ed infiniti. Possono quindi essere il punto di
partenza e d’ispirazione, se il processo creativo ha origine dentro di noi, per
conoscere chi siamo e cosa vogliamo e di riflesso trovare sempre il modo
migliore per visualizzare l’immagine che ci rappresenta e simboleggia prima
ancora di scattarla.
Nel caso dell’immagine che citi i
riferimenti ci sono. Ma più che quelli indicati nel campo della pittura, li
ritrovo piuttosto nei lavori di fotografi come Bill Brandt e Arthur Tress. Il
primo grazie ai suoi approfondimenti sul nudo anomorfico, il secondo grazie
alle sue costruzioni surreali e fantastiche che, partendo sempre dalla giustapposizione
di elementi reali, ricostruiscono immagini stranianti ed astratte.
Hai già alle tue spalle varie
pubblicazioni. Che rapporto e che confronto hai con la critica e con chi scrive
del tuo lavoro? E’ ancora determinante il contributo critico e teorico che, in
Italia, è sempre più fazioso e superficiale, per un fotografo? Molti fotografi,
sono propensi ad una sorta di autogestione sia creativa che di promozione e di
rapporto con pubblico ed istituzioni. La tua posizione al riguardo?
Ho in realtà scarsi contatti con
la critica in generale. Quando ci sono stati li ho trovati proficui nel senso
di un confronto e scambio reciproco, che mi hanno portato a guardare da punti
di vista diversi aspetti del mio modo di lavorare e conseguentemente ad una
crescita. L’interlocuzione più proficua ce l’ho in conclusione con i miei committenti
che considero i veri compagni di questa avventura creativa ed esistenziale.
Vivi e lavori a Milano. Ha senso
frequentare solo fotografi, come spesso accade nelle categorie autoreferenziali
e circoscritte del nostro paese?
Assolutamente no, almeno nel mio
caso. Sono contrario alla chiusura forzata e alle restrizioni di gruppo
professionali, incapaci di aprirsi alle molteplici realtà artistiche e ai mondi
paralleli destinati ad interagire ed influenzarsi reciprocamente. Molte
opportunità e condivisione di progetti sono nati proprio dai miei impegni professionali
come manager e come consulente.
Progetti futuri e possibili collaborazioni?
Sto rispondendo a diverse
richieste e la cosa interessante è che mi chiedono lavori fatti con il
cellulare, come ad esempio le immagini prodotte per un progetto corporate per
Umania, una società di consulenza attiva nel campo dell’innovazione (www.umania.it).
Il progetto di più ampio respiro in questo momento lo sto portando avanti in
Etiopia e Somalia per Perigeo (www.perigeo.org), una ONG attiva su diversi
fronti tipici della cooperazione. Però, tra le varie attività c’è anche quella meno
tipica della costruzione di musei antropologici in zone interessate da
conflitti a bassa intensità (sostanzialmente conflitti tribali) secondo una
pratica di “peacebuilding”. Per loro sto effettuando una ricognizione di questi
luoghi e dalla quale scaturiranno una serie di attività: mostre, proiezioni,
libri, ecc.
Complimenti a Francesco c
RispondiEliminaComplimenti a Francesco c
RispondiElimina