giovedì 16 ottobre 2014

StorieReali presenta: INTERVISTA A FRANCESCO CIANCIOTTA


                                   “I cieli tempestosi di Francesco Cianciotta”
Francesco Cianciotta; foto di Michele Malnati,
 post produzione di Francesco Cianciotta

Il 900’ è stato il secolo dei grandi fotografi. Richard Avedon, Cecil Beaton, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Erwitt Elliot, Robert Mapplethorpe, Bruce Weber , sono una parte dei pionieri di un nuovo modo d’intendere la fotografia, che oltre portare avanti una ricerca tecnico espressiva, indaga ed è testimone di una realtà in continuo mutamento, interagendo in diversi ambiti come la moda, la pubblicità, la cronaca, l’urbanistica, il cinema e il sociale.
Negli anni 80’, parallelamente ad una rinascita della pittura, dopo il predominio dell’arte minimalista e concettuale, gli artisti stessi, appoggiati dagli addetti ai lavori e dal collezionismo, s’impadroniscono del mezzo fotografico come strumento privilegiato del fare arte. Autorizzati e legittimati dalle sperimentazioni precedenti video arte, arte ambientale, performance, happening, che avevano esaltato il mezzo fotografico, contribuiscono alla consacrazione ma anche al ribaltamento e all’ambiguità, dell’identità stessa di fare ed intendere la fotografia.
In questo clima effervescente ed eccitante, che sarà poi l’anticamera della crisi economica sociale e del degrado culturale, avvenuto poi, s’inserisce anche l’opera fotografica di Francesco Cianciotta. La sua scelta di trasformare la sua costante ed eterna passione in linguaggio professionale e di ricerca, parallelamente ad altre esperienze professionali di manager e di formazione, gli consentono la libertà e l’autonomia necessaria per operare fuori dal coro. Pur essendoci continui casi ed esempi di grandi artisti, del presente e del passato, (come il medico Alberto Burri, l’ingegnere Fausto Melotti o l’avvocato Anselm Kiefer) in Italia, i cambiamenti e le esperienze differenti e parallele vengono viste comunque con sospetto e diffidenza.



Ancora prima di esporre in personali e collettive in Italia e all’estero, Francesco Cianciotta decide di sperimentare e misurarsi in diversi generi: dal paesaggio al ritratto, senza preclusioni o limiti, connotando e contraddistinguendo le sue opere con uno stile e un’identità narrativa precisi e particolari. Sia che utilizzi il bianco e nero o il colore, sia che si tratti di fotografie realistiche o surreali, la ricerca del dettaglio, dell’elemento umano e l’uso espressivo della luce, caratterizzano tutta la sua produzione. I risultati inducono ad un suo personale elogio alla lentezza, indipendentemente che si tratti di una ragazza sdraiata sul pavimento in una stanza ristretta che sembra scivolare o di ombre nere di passeggeri in attesa in aeroporto o di uno zebù, che appare misteriosamente in primo piano, spiccando sulle fragili costruzioni in legno di un villaggio africano. La realtà è interpretata e riprodotta da Cianciotta attraverso il passaggio dall’oscurità alla luce: infatti sono i cieli, a rimanere impressi nella memoria e a dare senso, corpo, come in una scenografia teatrale. Sembra quasi che quei cieli tumultuosi, affollati di nuvole, resi mobili dal vento e da improvvisi mutamenti atmosferici, siano creati dal fotografo a parte, con trucchi ed esperimenti di Photoshop e sovrapposizioni, tanto quanto appaiono densi e profondi, come nei quadri romantici per eccellenza di David Caspar Freidrich. Per contrasto, il soggetto in primo piano, il ragazzo di colore che ride ballando o la fila di grattacieli in ripetizione, sono resi in modo diretto ed essenziale senza indulgenze o compiacimenti teorici o tecnici. La fotografia vive una fase di autoesaltazione e di sfaldamento, fagocitata dal digitale, dalle tendenze effimere e svuotate di contenuti forti e dall’usura dell’immagine causata dai media. Francesco Cianciotta, pur consapevole dei rischi, continua il suo percorso personale e di ricerca, di luce o ombre, di indagine di linguaggi e libertà espressiva. Come il sentiero di una sua opera che si perde in lontananza sulle montagne, verso un cielo poco terso, lasciandosi alle spalle la luce accecante della prateria.
http://www.francescocianciotta.com/


Dalla serie "Un viaggio a parte" - Aeroporto Charles De Gaulle - Parigi, Luglio 1997

Hai sempre sostenuto che il mezzo tecnico e l’apparecchio non sono fondamentali per il risultato finale. Come nel caso della serie d’immagini scattate all’aereoporto, realizzate con una macchinetta di plastica usa e getta, senza nessun pregio o valore, che ti ha consentito di non dare nell’occhio e non infastidire l’interlocutore. Sei sempre convinto di questa tesi a fronte dell’esperienza generale?
Si, certamente, il mezzo è solo funzionale a quello che ciascuno si prefigge come risultato. Il lavoro negli aeroporti, racchiuso nel volume “Un Viaggio a Parte” edito da Motta Editore, partiva anche e soprattutto da un’urgenza di fotografare che non s’assopiva mai ed è stata sospinta e ha preso consistenza, anche quando facevo tutt’altro. E’ stato proprio “il manager errante” ad eleggere gli aeroporti a soggetti fotografici con un mezzo quasi invisibile, un giocattolino che mi permetteva però discrezione e la più ampia libertà di scatto. Quell’esperienza fotografica ha dato fondamento ad una pratica che si basa sulla ricerca dell’eccezione più che sulla costruzione di una serie di regole. Per far ciò era necessario lavorare con mezzi di bassa qualità, che è l’altra parte consistente della mia pratica di ricerca. Attualmente sto lavorando con il cellulare e più che a usarlo come una “estensione” della macchina fotografica “tradizionale” sono interessato a individuare e sviluppare quello che è il suo linguaggio specifico.

Bruce Weber racconta che il risultato finale non è mai garantito e programmabile a tavolino. Infatti, anche quando lui fotografa i suoi protagonisti, la componente ironica ed umana rimangono le variabili costanti, il mistero sotterraneo che distingue l’opera speciale. L’immensa fotografa Diane Arbus, sua grande amica, gli ripeteva che i soggetti scelti e fotografati sono legati poi a te per sempre. Caso ed esperienza, come essi influiscono nel rapporto con il soggetto?
Nel caso della ricerca personale, come prima ho accennato, sono molto interessato a ricercare le “eccezioni” e quindi alla ricerca di immagini in qualche modo casuali ma che corrispondano al modo in cui guardo. Per fare ciò lavoro molto spingendomi ai limiti sia del linguaggio che delle possibilità tecniche del mezzo che sto utilizzando: le due cose in realtà si intrecciano e si alimentano a vicenda. Nel caso della committenza il seguire e dover rispondere ad una indicazione precisa, il dover tenere in considerazione le esigenze dell’“altro da sé” mi ha sempre stimolato contribuendo ad allargare i miei orizzonti visivi e mentali. Nella serie “Epoché”, nella quale ho ritratto una quarantina di donne incinte, alla fine le immagini più riuscite erano proprio quelle che mi venivano suggerite dalle committenti in una corrispondenza d’intenti umana e visionaria.

Dalla serie "Etiopia" - Zebù - Prefettura di Robe, Giugno 2014

Gabriele Basilico rimane un punto di riferimento fondamentale per chi si vuole confrontare con l’architettura e l’aspetto urbano della città. Cosa distingue e accomuna il tuo modo di fotografare le città rispetto a questo grande maestro?
L’intenzione! Gabriele Basilico rimane un maestro indiscusso per ognuno di noi: lui parte da un rigore geometrico, una sintesi visiva e mentale dettata da una ricerca architettonica, urbanistica che dà un senso agli aspetti meno evidenti del suo interesse antropologico. Le sue città parlano degli uomini senza farli apparire. Nel mio caso, la città è intesa come uno degli strumenti d’indagine e di relazione con la realtà, per far riemergere la mia visione personale, il modo per comunicare con l’interlocutore e con il mondo. Anche se ho fotografato le città, come nella serie “Concrete Pause”, in realtà fotografo tutto perché guardo tutto.

Il tuo percorso come manager sarà comunque stato fondamentale per accrescere e sviluppare le tue soluzioni ed intuizioni narrative e visive. Oggi più che mai, qualsiasi creativo deve confrontarsi e avere una conoscenza panoramica ed approfondita in diverse discipline ed ambiti. Cosa consigli a un giovane fotografo che vuole essere un professionista ed essere considerato “un artista” poi?
L’irruzione del digitale e dei social network ha prodotto una proliferazione immensa di immagini non necessariamente supportate dalla qualità: siamo immersi in una “marmellata” e diventa difficile anche solo formare il proprio sguardo. Quindi, al di là delle scuole specifiche o dell’importanza di viaggiare, rimane essenziale trovare la propria strada, arrivare alla propria immagine originale, quella che è più vicina a chi si è e che contraddistingue il proprio modo di guardare. Quando mi domandano consigli come questo suggerisco sempre di buttare via il 95% del proprio lavoro e di ripartire da ciò che rimane per rendersi consapevole di ciò che si guarda e di come si guarda. La fotografia è una malattia compulsiva che rischia di portare lontani da sé stessi e va tenuta a bada.


Sei in partenza per l’Etiopia. La condizione cosmopolita e di eterno viaggiatore sono una scelta di vita obbligatoria, nonostante internet e la globalizzazione. Si può trovare ispirazione e proseguire nella ricerca, chiusi nella camera oscura come sulla vetta di una montagna?
Sì, certo, i risultati però saranno inevitabilmente diversi e dipende sempre un po’ da dove si parte. Nelle stanze d’albergo di “Impermanent Rooms” o sul bordo di un cratere dell’Etna di “Genius Loci”, ho sempre scattato (con mezzi diversissimi!) con la consapevolezza che ogni immagine speciale che avrei trovato era il risultato di un processo interiore di conoscenza e di riflessione che non necessita di sovrastrutture o sofisticati materiali di supporto. Nel mio caso lo strumento fondamentale che supporta naturalmente il mio percorso fotografico è la meditazione che pratico da molti anni.

Dalla serie "Epoché" - Amelie - Quebec, Luglio 2002

La tua donna incinta, posizionata nei cespugli neri ed alti, sembra una citazione dell’opera di Marcel Duchamp, a sua volta ripresa dal nudo dell’”Origine del mondo” di Gustav Courbet. Quanto è importante ed influisce conoscere la Storia dell’Arte?
Quanto è importante non lo so, di sicuro influisce molto. Sono cresciuto in una famiglia dove la passione verso la cultura e l’arte era cosa naturale. Inconsciamente, più che altro, i riferimenti rimangono ancestrali ed infiniti. Possono quindi essere il punto di partenza e d’ispirazione, se il processo creativo ha origine dentro di noi, per conoscere chi siamo e cosa vogliamo e di riflesso trovare sempre il modo migliore per visualizzare l’immagine che ci rappresenta e simboleggia prima ancora di scattarla.
Nel caso dell’immagine che citi i riferimenti ci sono. Ma più che quelli indicati nel campo della pittura, li ritrovo piuttosto nei lavori di fotografi come Bill Brandt e Arthur Tress. Il primo grazie ai suoi approfondimenti sul nudo anomorfico, il secondo grazie alle sue costruzioni surreali e fantastiche che, partendo sempre dalla giustapposizione di elementi reali, ricostruiscono immagini stranianti ed astratte.

Hai già alle tue spalle varie pubblicazioni. Che rapporto e che confronto hai con la critica e con chi scrive del tuo lavoro? E’ ancora determinante il contributo critico e teorico che, in Italia, è sempre più fazioso e superficiale, per un fotografo? Molti fotografi, sono propensi ad una sorta di autogestione sia creativa che di promozione e di rapporto con pubblico ed istituzioni. La tua posizione al riguardo?
Ho in realtà scarsi contatti con la critica in generale. Quando ci sono stati li ho trovati proficui nel senso di un confronto e scambio reciproco, che mi hanno portato a guardare da punti di vista diversi aspetti del mio modo di lavorare e conseguentemente ad una crescita. L’interlocuzione più proficua ce l’ho in conclusione con i miei committenti che considero i veri compagni di questa avventura creativa ed esistenziale.

Vivi e lavori a Milano. Ha senso frequentare solo fotografi, come spesso accade nelle categorie autoreferenziali e circoscritte del nostro paese?
Assolutamente no, almeno nel mio caso. Sono contrario alla chiusura forzata e alle restrizioni di gruppo professionali, incapaci di aprirsi alle molteplici realtà artistiche e ai mondi paralleli destinati ad interagire ed influenzarsi reciprocamente. Molte opportunità e condivisione di progetti sono nati proprio dai miei impegni professionali come manager e come consulente.

 Progetti futuri e possibili collaborazioni?
Sto rispondendo a diverse richieste e la cosa interessante è che mi chiedono lavori fatti con il cellulare, come ad esempio le immagini prodotte per un progetto corporate per Umania, una società di consulenza attiva nel campo dell’innovazione (www.umania.it). Il progetto di più ampio respiro in questo momento lo sto portando avanti in Etiopia e Somalia per Perigeo (www.perigeo.org), una ONG attiva su diversi fronti tipici della cooperazione. Però, tra le varie attività c’è anche quella meno tipica della costruzione di musei antropologici in zone interessate da conflitti a bassa intensità (sostanzialmente conflitti tribali) secondo una pratica di “peacebuilding”. Per loro sto effettuando una ricognizione di questi luoghi e dalla quale scaturiranno una serie di attività: mostre, proiezioni, libri, ecc.

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