giovedì 11 giugno 2015

StorieReali presenta: INTERVISTA A NICOLA CAMPIOTTI

                                                         
                                                         Sarà un Paese
 "L'anima di un luogo cambia e muta per come vien tenuta, per come è governata”
Nicola Campiotti

La locandina del film Sarà un Paese
di Nicola Campiotti

In un universo sprofondato in una crisi planetaria e non solo economica, dominato dalle immagini e da un paesaggio artificiale, si percepisce l’urgenza sotterranea e troppo a lungo elusa e rimandata, di fare chiarezza, di un ripensamento sulle tematiche, le modalità e i significati dei linguaggi espressivi, in ambiti come la letteratura, l’arte e il cinema. Troppo spesso, si tratta di un sistema gerarchico, chiuso e limitato alle generalizzazioni e alle rassicuranti conferme, invece di cercare e privilegiare un’intesa e un dialogo con il pubblico.
 In questo senso, il regista Nicola Campiotti, con il suo primo film del 2013 Sarà’ un Paese, ci invita a ripensare al significato di rappresentazione del mondo, di relazione con l’altro e sulla responsabilità dell’autore e contemporaneamente dell’artista.

La storia, in bilico tra realtà e favola, mitologia e attualità, memoria e presente, e’ un viaggio reale e simbolico dei due protagonisti, Nicola e il fratello minore Elia, che parte da un rapporto intimo, quotidiano e si apre alla società, a una rilettura della modernità.
Tale evocazione e rilettura comprende temi forti, una riflessione teorica e sul campo delle problematiche attuali, non solo italiane ma universali : la critica a un certo consumismo, l’omologazione dell’immaginario, il recupero a una dimensione più rispettosa e attenta del mondo e del nostro pianeta; lo sfruttamento delle risorse e della natura, i cambiamenti climatici, i disastri ambientali, pongono questioni inedite, problematiche quasi del tutto sconosciute e mai affrontate. 
Sarà un paese si trasforma e si configura in un'opera collettiva, come sperimentazione e costruzione di uno spazio e un tempo comuni, una dimensione corale.
Non c’è più da recuperare un passato, non c’è più da controllare un futuro. Progresso lineare e tradizione cristallizzata, non interessano a Nicola Campiotti che ad ognuno di noi, pur nella diversità, attribuisce uno sguardo rivolto all’avvenire, consapevoli che senza la gioia, la leggerezza e senza la poesia del bambino, non è ipotizzabile un mondo nuovo e diverso.
Il bambino è condotto dal fratello, sulle orme di Cadmo, il detentore e custode del primo alfabeto.
La dimensione mitica corre parallela alle storie reali del nostro paese, ci perdiamo in un labirinto di vicende umane e divine, di immagini naturali e metafisiche, che occupano tutto lo spazio della narrazione.
Senza la retorica, l’ideologia e la spietatezza dell’impegno caratteristico degli anni ’70, Nicola Campiotti, riscopre la dimensione etica della narrazione filmica, che è strutturalmente legata alla condizione umana e alla capacità di reinventarsi.

Link e contatti:
Contattare a distribuzione.indmr@gmail.com per ricevere il film.


Il regista ed Elia

Il tuo film è stato nominato dall’Unicef e scelto come materiale didattico di studio e approfondimento per le scuole. Anche se poi non è certo solo un film per bambini, intuire e condividere la loro autenticità e il potere costante dell’immaginazione dovrebbe essere un sforzo comune. Questa tua personale visione, come condiziona ed arricchisce il tuo percorso creativo, in un mondo che il regista Woody Allen considera cinico e spietato, destinato alla scomparsa totale e definitiva?
Il mondo è quello che facciamo di lui, il risultato in continua trasformazione delle nostre azioni. Prima che film-maker, mi considero come un suo cittadino, che non può fare altro che assumersi le proprie responsabilità. Il continuo stupore e la meraviglia costante del bambino, che si rinnovano ogni giorno, rappresentano l’esempio autentico, l’universale strumento di traduzione ed interpretazione del reale e la possibilità intrinseca d’interagire, farne parte.
 Avendo studiato Filosofia, questo incanto rimane il leitmotiv perenne anche rispetto alla società civile di Atene nel terzo secolo o al modello della civiltà romana di Marco Aurelio. Contro ogni retorica debole della rinuncia, l’esperienza della leggerezza e l’irriducibile poetica dell’infanzia, ci permettono di scoprire la resistenza etica.
Come mi ha insegnato Elia, il bambino protagonista, che trasforma ogni volta, la sconfitta del dolore e della sofferenza, in affermazione di riscatto, in scoperta della libertà comune di poter essere. Contro il cinismo e l’amarezza di Woody Allen, mi riconosco invece nella visione di speranza di Gandhi, che afferma un’idea radicalmente rivoluzionaria, credendo e affidandosi ad ogni individuo, rendendolo partecipe del destino dell’intera umanità.
Un pensiero vivo e in diretta continua con le trasformazioni dell’esistenza.

Lo sguardo del bambino ha molti precedenti nella storia del cinema: il potente dramma di “Germania anno zero” di Roberto Rosellini, uno dei capolavori della Nouvelle Vague, “Quattrocento colpi” del 1959 di Francois Truffaut che anticipa e racconta il disagio e l’incomunicabilità tra adulti e adolescenti, fino al film retorico, auto riferito ed eccessivamente strutturato di Veltroni: “I bambini sanno”. Un tempo di lavoro e una convivenza con il bambino attore di alcuni anni di lavorazione per il tuo film ti ha aiutato a trovare un linguaggio comune e tradurlo poi, in narrazione?
Ogni epoca di crisi, di vuoto morale, ha avuto i suoi grandi interpreti che si confrontavano criticamente e fino in fondo con la società. Nel rinnovare questa ricerca di senso, ho riflettuto costantemente sulla fondamentale esperienza condivisa durante la lavorazione ed ora mi viene in mente un verso della canzone: “Amico fragile” del cantautore Fabrizio De Andre’: “Ero molto più curioso e molto meno stanco di voi”, che racconta moltissimo di lui e di come voleva affrontare il mondo.
Dall’infanzia, dal piccolo Elia ho cercato di assimilare, d’imparare per il mio lavoro, a controllare la stanchezza e a conservare e potenziare l’energia.

Tuo padre stesso, Giacomo Campiotti, esordì con il lungometraggio: “Corsa di primavera” del 1989, che racconta la vita di provincia attraverso gli occhi dei bambini. Condividete la stessa visione del mondo e la convinzione che fare cinema sia anche un modo per prendere una posizione precisa rispetto al sociale e un’arma pacifica e poetica di rivolta?
Mio padre, grandissimo genitore prima ancora che intenso regista, che si definisce “maestro mancato”, si trova, ed e’ stato sempre in linea diretta con l’infanzia e
 l’innata capacità dei bambini di essere sempre partecipi, presenti. Da questa carica umana deriva il loro dono naturale, la capacità quotidiana di saper trasformare il dolore e la tristezza in energia e carica vitale.
Credo profondamente nel cinema come strumento per incidere sulla realtà. Quando il mio film e’ trasmesso nelle scuole, questo mi rende orgoglioso e mi commuove, come è successo nel caso di Don Ciotti e nella sua associazione ‘ Libera’, dove hanno voluto creare un bando, rivolto ai ragazzi, per la creazione di un nuovo capitolo del film. Un esempio di coinvolgimento autentico e aggregazione possibile attraverso la creatività.
In questo senso, Sarà un Paese si trasforma in un progetto infinito, che s’intreccia con la vita, le riflessioni condivise e il racconto delle esperienze reali.

Gli attori di Sarà un Paese, non sono tutti professionisti, ma scelti volutamente in giro per l’Italia, come autentici testimoni del reale. Come hai condotto la loro recitazione? Avevate un testo scritto in comune come sceneggiatura o si basava sull’improvvisazione neorealista? Inquadrature e girato, ridefiniti e tagliati poi, in fase di montaggio?
E’ stata una scelta precisa e consapevole quella di lavorare e girare con attori non professionisti o di teatro: in questo senso, è stato un vero esperimento con linguaggi diversi ed espressioni differenti, un film che diventa un documentario, poi un monologo teatrale off e poi di nuovo storia inventata: una confluenza di ambiti narrativi e pluralismo di generi.
Ad Elia, ho solo chiesto di mettersi in ascolto all’inizio con le persone, per guadagnare la loro fiducia. Solo successivamente tornavo per fare domande, senza l’elemento intrusivo ed invasivo della macchina da presa e chiedevo loro di parlare, come se dovessero interloquire con un fanciullo. La domanda comune era: “Come racconteresti quello che mi hai detto, in pochi minuti e a un bambino?”

Elia in una scena del film

Nonostante i numerosi premi e riconoscimenti di pubblico e critica, la distribuzione di Sarà un Paese non è stata diffusissima e prolungata. Un destino comune ad un cinema indipendente e di qualità in Italia? Problema che all’estero è meno sentito, anche se a Hollywood c’è una sacrale ovazione per le grandi produzioni e dagli effetti speciali, con le solite star e le stesse sceneggiature. Pochi produttori ed insufficiente volontà d’investire in film di esordienti e con certi contenuti non in linea con prodotti più commerciali.
E’ vero, la distribuzione non e’ stata prolungata e capillare ma il film ha comunque una sua dimensione e vita propria, un percorso autonomo e poi purtroppo non invecchia, parallelamente a un’Italia che stenta a cambiare.
Ad esempio in Francia, diversamente, i kolossal americani pagano più tasse, per finanziare i progetti indipendenti, di ricerca e di qualità. Devo anche aggiungere che nonostante tutte le difficoltà e reali impedimenti per quanto mi riguarda, ogni successiva proiezione è stata fonte inesauribile di riflessioni, approfondimenti e riletture, che ne fanno un’opera aperta, in divenire, da proporre ogni anno nelle scuole.

Quali sono i tuoi modelli e riferimenti nella storia del cinema? E le tue fonti d’ispirazione? L’associazione a De Sica e a “Miracolo a Milano”, sorge spontanea.
Il cinema italiano e’ un crocevia fondamentale per tutti. ‘Otto e mezzo’ di Fellini, devo averlo rivisto, moltissime volte, per cogliere i suoi particolari narrativi, visivi e psicologici. Il neorealismo rappresenta una scuola eterna e vitale per tutti i registi. Personalmente però, il mio film di riferimento rimane: “La gabbia dorata”, “La jaula de oro” del 2013, del regista Diego Quemada-Diez, che racconta dell’immigrazione spagnola verso gli Stati Uniti, vista e vissuta ancora una volta da tre bambini.

Sarà un paese è anche il risultato notevole di un lavoro di gruppo e di sostegno. C’è qualche autore, compositore o fotografo italiano o straniero con il quale ti stimolerebbe a lavorare per il futuro?
Il cinema e’ sempre un lavoro collettivo, un’opera corale.
Il talento individuale, la storia che prende corpo, hanno infatti senso e crescono in un quadro in espansione, un insieme di rapporti coltivati, di cooperazione fondamentale e confronto continuo. Ed è sempre lo strumento della curiosità che attingiamo ed impariamo dai bambini, a renderci disponibili umanamente e partecipi poi del cambiamento. Il coraggio professionale e creativo é nella capacità di vedere oltre. Basta ricordare Giacomo Leopardi, quando scrive “L’Infinito”, con una visione limitata dalla siepe.

Hai una laurea in Filosofia e un’esperienza giovanile addirittura con Wim Wenders. Cosa consigli a un giovane che oggi ha ancora il coraggio d’intraprendere il lavoro del regista? Scuola di cinematografia, sperimentare in altri ambiti artistici, vivere all’estero? Lavorare per la televisione e il teatro?
Rispetto a molti amici partiti per l’estero, ho deciso di rimanere. All’inizio si è soli, ma consiglio di creare sempre un gruppo di riferimento, una squadra affiatata con la volontà precisa di arrivare a fare, concretizzare un’idea, senza perdersi solamente nel lavoro teorico. Per esempio, nel mio caso, posso citarne uno fra i più validi, il mio amico fotografo, Leone Orfeo, che ha frequentato la scuola sperimentale ed è stato allievo del grande maestro Peppino Roturno.
Rapporti umani, prima che professionali, che funzionano da collante, da palestra di vita, perché lo studio articolato e le conoscenze differenti, hanno senso per un futuro regista, nel confronto aperto e nella preziosa collaborazione con musicisti, scrittori, tecnici e scenografi.

L’Italia che hai rappresentato si riconosce nell’eterno immobilismo gattopardesco e contemporaneamente nei miracolosi cambiamenti e risorse inaspettate? Credi comunque ad una possibilità di riscatto e di reale trasformazione, nonostante la disoccupazione crescente ed un’ancestrale chiusura verso le nuove culture e agli stranieri, considerati per sempre extra comunitari?
L’Italia, come ho sempre creduto, è sempre stata e sarà il risultato di quello che sapremo fare noi. Sarà un Paese, nonostante dei momenti drammatici, come la morte del ragazzo sulla macchina mentre lavora o la speculazione sugli inceneritori, non è un film che nega la speranza per il futuro. Personalmente, continuo a crederci. Credo nella scuola pubblica, credo nelle sue risorse diverse, nella difesa del territorio e credo anche nell’educazione civica, nella lotta alla corruzione, all’ammirazione verso eroi come Falcone e Borsellino.
Altrimenti non avrei iniziato ed immaginato questa infinita avventura.

Progetti futuri?
Molti, almeno tre, che innaffio e coltivo e che voglio sottoporre a dividersi produttori.


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