lunedì 17 febbraio 2014

StorieReali presenta: INTERVISTA A FRANCESCO CORREGGIA


                             "Lo spettatore al centro del quadro"

L'artista Francesco Correggia in "Ritratto con cannocchiale"

«Rimettere al centro l’opera vuol dire avere il coraggio di ridescrivere il mondo, comprendere la sua ineludibile complessità […]»: Francesco Correggia, con questa affermazione, (tratta dal saggio “Di nuovo il senso”, Arcipelago Edizioni), non lascia spazio a fraintendimenti o ambiguità rispetto al suo costante impegno e alla sua radicale posizione, in riferimento alle tematiche artistiche, etiche e sociali di oggi e di ieri. Pittore, video performer, docente, critico, scrittore, saggista, giornalista e curatore: l’originalità e la molteplicità del suo fare e agire lo accomunano a un altro grande artista, con un simile percorso: Carlo Carrà, instancabile sperimentatore e teorico innovativo, quando scrive, (interpretando nuovamente la definizione leonardesca della pittura come “operazione mentale): «La pittura deve cogliere quel rapporto che comprende il bisogno d’immedesimazione con le cose e il bisogno d’astrazione».
La dimensione del Quotidiano, come la sfera del Sublime, sono i territori privilegiati da Correggia, che è consapevole di come questa mappa si traduca in un’esperienza di un’ inadeguatezza, di una pratica sfuggente, un segno che distingue l’artista contemporaneo, partendo da Duchamp. L’esplorazione continua anche nel suo lavoro artistico, dove Francesco Correggia trascende, supera i generi e opera in modo autonomo ed indipendente: il libero recupero della pittura, che si esprime nei suoi infiniti e stratificati cieli, parallela a una dimensione poetica concettuale, quella della scrittura. I suoi testi che attraversano le superfici, che spalancano abissi, le parole che provocano vortici, rispetto al panorama convenzionale e al repertorio standard generale italiano.
«Mi sto meravigliando del cielo», afferma Wittgenstein, «comunque esso sia». Esattamente di questo si meraviglia Francesco Correggia: in lui Sublime ed Etico hanno lo stesso ritmo. La parola nella sua pittura non è l’unica via di accesso al reale, ma sembra volersi tradurre in esperienza concreta, di relazione e di scambio con chi guarda il quadro.
Nella storia di Francesco Correggia ci sono momenti in cui la sua attività è rivolta alla creazione di spazi culturali associativi, come Lo Studio Garage a Catanzaro nel 1982, lo Studio Veder arte contemporanea a Milano nel 1987, il suo impegno come curatore allo spazio Formentini con il ciclo di mostre dal titolo DUEL e ora ZONE, Studi di cultura Visuale, Teorie e Pratiche dell’Arte. Lo scopo primario non è solo di ricerca ed approfondimento sui temi e sulle dinamiche artistiche, filosofiche, estetiche, scientifiche e letterarie, ma soprattutto, scaturisce dall’urgenza di un coinvolgimento umano ed intellettuale di un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo: obiettivo fortemente voluto e sottolineato da Francesco Correggia (presidente dell’associazione), insieme agli altri artisti e amici dell’Associazione.
ZONE non è contro il sistema, non è una galleria alternativa, non è un movimento separatista, non è un manifesto d’avanguardia o un gruppo ristretto di pittori ma prende con determinazione le distanze da uno stantio e agonizzante apparato, rappresentante il cosmo dell’arte, che a parte delle rare eccezioni, ha da tempo perso il contatto con la realtà e la capacità di testimoniare e approfondire il cambiamento intellettuale e sociale in atto. Mutamento, che Francesco Correggia ha sempre auspicato ed incoraggiato e, in determinati casi, anticipato. Dopo aver dipinto “I Funerali dell’anarchico”, Carlo Carrà, per il Manifesto della Pittura Futurista, fece dettare la frase: «Noi metteremo lo spettatore al centro del quadro». Ancora una volta, Francesco Correggia attraverso una “rivolta metafisica”, vuole recuperare il rapporto dell’artista con l’altro, con altri, con l’ambiente, la società, la storia e il pianeta. Di nuovo, il senso.

Nonostante il degrado delle Accademie e il disinteresse da parte delle istituzioni, anche a seguito della tua esperienza come docente di Decorazione e Teorie e Pratiche del Contemporaneo presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, hai sempre sostenuto l’importanza della Storia dell’Arte, e di quella “verità” dell’opera, quella professata da Cézanne. Conoscenza e consapevolezza sono ancora fondamentali, per chi compie una ricerca e una sperimentazione in ambito artistico?
Il ruolo delle Accademie nella formazione e nella conoscenza dell’arte è fondamentale, anche se i governi che si sono succeduti finora non hanno mai compreso appieno la potenzialità di queste Istituzioni per quanto riguarda non solo la formazione dell’arte ma anche per quanto attiene le conoscenze e i saperi, come anche la ricerca avanzata e la produzione: io stesso mi ero fatto promotore di un Dottorato di ricerca in Antropologia dell’immagine e Problematiche del Contemporaneo. Il dottorato, che doveva appunto completare con il terzo livello della formazione l’iter accademico, era il primo tentativo di mettere insieme Accademia e Università in un progetto comune di ricerca. Il dottorato che aveva avuto importanti riconoscimenti internazionali era pronto ma non è mai partito, per il disinteresse totale di chi avrebbe dovuto volere il bene delle Accademie e dei suoi studenti. La legge di riforma delle Accademie che risale al 1999 era un contenitore vuoto che non chiariva bene l’appartenenza delle Accademie nell’ambito universitario. I vari decreti applicativi che avrebbero dovuto portare chiarezza rispetto ai percorsi disciplinari e definire lo stato giuridico della docenza, ci hanno riportato indietro in una logica burocratica secondarizzante. La responsabilità dei vari ministri al MIUR in tutti questi anni è stata forte e ha manifestato una profonda ignoranza sulle questioni dell’arte in generale e, quel che è peggio, sullo stesso quadro formativo europeo della formazione universitaria. Purtroppo la riforma delle Accademie, come sempre accade in questo paese, era già nata vecchia e forse occorrerebbe rifarne un’altra più consapevole. Le responsabilità non sono soltanto politiche ma vanno divise anche all’interno delle Accademie stesse. D’altra parte come si fa a pensare a percorsi disciplinari seri e specialistici quando il sistema di reclutamento dei docenti non esiste, non si fanno concorsi nazionali dal 1992 e molte discipline dell’offerta formativa che dovrebbero andare a concorso sono date a professori dell’Accademia di seconda fascia già di ruolo, su discipline appartenenti ad altri settori scientifici disciplinari, secondo criteri opinabili. Quel che rimane va a contratto con graduatorie interne sui cui preferisco non pronunciarmi. Certo che manca una consapevolezza e una coscienza. Non si può pensare oggi al fare dell’arte come una sorta di dimensione artigianale acritica, senza alcuna coscienza della storia, del proprio ruolo, senza capacità interpretative e di lettura del mondo. Ciò vale, non solo per le scuole della tradizione artistica come la Pittura, la Decorazione e la Scultura ma anche per scuole come comunicazione e didattica, beni culturali, Design ecc. Questi sono mondi dove teorie e pratiche vanno insieme, dove l’esperienza e l’espressione coincidono in un ethos della vita consapevole. Il motto del pittore Cézanne, che nella sua lettera al suo amico pittore Emile Bernard pone uno dei paradigmi dell’arte moderna, suona: « Vi devo la verità in pittura e ve la dirò», dice non la verità in senso assoluto ma reclama la responsabilità nei confronti della natura e dello stesso reale da parte dell’artista. Occorre un fare che s’interroghi sulle cose, sul mondo, sulla realtà, sulla storia, un fare che è anche un agire accompagnato da altre pratiche, discorsive, letterarie, mediali, filosofiche. I nuovi territori dell’arte aprono non solo a riflessioni inedite ma a nuove conoscenze e lavori che il legislatore non sa vedere, non sa comprendere proprio perché non sa, è all’oscuro della storia.


"Non può che essere", olio e grafite su tela, 2013

Nell’epoca della globalizzazione , il rischio nell’arte è, da un lato, la rassicurante ripetizione e la pedissequa riproposta delle immagini tratte dal web, digitali, espressione di un quieto realismo narrativo e, dall’altro, l’esaltazione, ancora una volta, del mezzo: fotografia, installazione, video, performance per auto-legittimare la mancanza di idee forti e di un intervento artistico sganciato dal reale ed incapace di un messaggio poetico e teorico. In che cosa consiste per te la relazione tra un genere come la pittura e la scrittura?
La questione degli strumenti non è nuova. Già negli anni sessanta, per esempio, la Video Art era uno dei mezzi usati non solo per documentare le azioni e le performance degli artisti, ma anche per esprimere le proprie teorie, i pensieri, le idee fino a diventare un mezzo autonomo, un linguaggio con proprie unità espressive. Oggi abbiamo a che fare con la possibilità ancora più potente di poter usare quel che nella cultura anglosassone chiamano mixmedia, cioè l’uso di differenti media in una specie di mescolamento: si tratta di un sistema espressivo misto. Assistiamo sempre di più a mostre con quadri, istallazioni, video nello stesso ambiente. Credo che oggi non ci sia un problema specifico dell’utilizzo di un media piuttosto di un altro, di un mezzo considerato nuovo rispetto a uno tradizionale. Voglio dire: non è più scandaloso, eccentrico, rumoroso che un artista oggi faccia uso della cacca o delle immagini di guerra, del suo stesso quotidiano in mostra, del video, delle immagini web e di tutto ciò che esiste nella rete per realizzare un’opera. La modernità ci ha abituato a vedere ben altro; infatti la questione è un’altra, non è più la realizzazione estetica o anestetica più o meno riuscita di un’idea usando un mezzo nuovo, la stessa fruizione del mezzo o la stessa comunicazione che è più del contenuto, ma la dimensione metaforica, poetica, veritativa di questo agire, il che non vuol dire un ritorno al contenuto, al simbolico, ma un essere e un sentirsi in causa, in debito rispetto al reale. Per questo ritengo che proprio la pittura possa tornare a essere un agire, una di quelle possibilità per riaprire la questione dell’opera e del suo senso. La necessità di inserire testi poetici e letterari sulla superficie della pittura va intesa come nesso incrociato fra il visibile e la parola, ovvero tra ciò che è l’indicibile del visibile, e ciò che è l’invisibile del dicibile. Sia la pratica della parola che la pratica della pittura si intrecciano rimandando ad altre pratiche, ad altre visioni e congiunzioni poetiche. E’ proprio nell’integrazione o nella differenza di queste pratiche, sempre in movimento, che compaiono nuovi oggetti, nuovi paesaggi di memoria, nuove metafore. Lo stesso visibile è attraversato dalla parola alfabetica che in qualche modo rimanda al suono della voce, ma anche al silenzio prima e dopo la parola, prima e dopo il visibile. Ciò che cerco è proprio questa relazione, il vissuto acustico ma anche il vissuto storico della pittura.

I tuoi cieli si rifanno a quelli di Turner e le traiettorie di parole, rimandano agli orizzonti di Ed Ruscha, con delle reminiscenze sussurrate, che ricordano Mark Tobey. C’è un ritorno e una rivincita non solo della pittura ma anche della scrittura che sembra godere di un grande rilancio. Come sei riuscito a precorrere i tempi senza cadere nell’operazione superficiale e mercantile e concentrandoti invece sull’approfondimento teorico?
Più che una rivincita è un tormento. Se non sappiamo dove sia la realtà, poiché le immagini sono diventate più della stessa realtà e si sono sostituite ad essa, allora occorre che ci sia una possibilità, una energheia e una dynamis nuove che sappiano ridire le cose, che sappiano ontologicamente mettere insieme l’atto disvelante e la semplice possibilità di un ente a tradursi in valore di realtà. La parola come traduzione della cosa. Forse possiamo ritrovare la realtà, sempre che essa esista, o il nostro modo di descriverla, solo se sappiamo svelare il nesso incrociato tra l’ineffabilità del visibile e l’invisibile della parola. Ecco quindi che la pittura potrebbe aver un compito difficile e forse fuori tendenza: quello di ridescivere il mondo. Penso che questa ridescrizione non possa che passare attraverso la pittura e la parola alfabetica. Dico parola e non scrittura poiché è la parola ad essere fortemente immaginante, mentre la scrittura è un flusso di un dire interdetto che si sposta costantemente. Per me, l’approccio teorico alla pittura è fondamentale, è la stessa cosa dell’arte. Dicendo questo non dico che è l’assoluto, ma semplicemente che la nozione stessa di teoria come sospensione della prassi non vuol dire solo una non-azione o una mancanza totale di realizzazione, bensì una messa in opera dei principi stessi della costituzione dell’essere in rapporto alla noesis, il che è già modo, potenzialità, azione in fieri. Ciò mostra una concretezza, un principio di un fare che si trasforma in atto, non solo intenzionale, ma in movimento, diretto verso una cosa, un oggetto, un senso. In quest’ottica la teoria è una pratica, una pratica cinica, nel senso greco del termine, che sta nella pittura. Basti pensare ai pittori del passato, alle loro scritture, ai loro testi poetici, dichiarazioni di intenti, racconti e aforismi. L’esigenza della scrittura diventa una necessità teorica che nasce proprio dal fare. Non si tratta di una giustificazione del proprio lavoro ma di un contrappunto dell’opera. Quasi tutti gli artisti hanno scritto esponendo le proprie teorie a proposito della natura, del mondo e della relazione con altri quadri, con altri artisti. E’ sufficiente appunto vedere questi libri, leggerli per comprendere fino in fondo la natura poetica discorsiva delle loro opere. Cito alcuni di questi pittori: da Delacroix, fino a Cézanne, Fussli, Friedrich, da Van Gogh e Gauguin fino a De Chirico, Magritte, Duchamp, Kosuth, Le Witt, Ruscha. Senza questa dimensione scritturale di approfondimento teorico concettuale non si può dare l’Arte. Ciò fa la differenza, fra un quadro e l’altro, un opera d’arte e un quadro ben fatto, fra il giorno e la notte.      

In Italia, a differenza di altri paesi, l’artista che scrive è considerato ancora con sospetto. La teoria dovrebbe rimanere appannaggio e dominio incontrastato di critici e curatori. La capacità di sintesi testuale e l’intuizione creativa non dovrebbero essere agli antipodi. Un altro pregiudizio molto provinciale. Ti senti in bilico, in sospeso, indeterminato tra le tue competenze?
Non mi sono mai posto il problema poiché questa questione non esiste. D’altra parte la critica comunemente detta aveva una funzione letteraria interpretativa dell’opera ed è nata di recente, con Baudelaire, Zola, Balzac, che guarda caso non erano dei critici ma dei poeti, degli scrittori che stavano a fianco dei pittori, nel senso che conversavano e discutevano con loro. Anche la critica così come arriva a noi dalla modernità aveva le sue teorie. Non mi sembra poi, a differenza di una certa critica che risale a Greenberg, Rosenberg e agli italiani come Arcangeli, Venturi, Argan, A.B. Oliva (critica molto attenta agli artisti e alla dimensione contestuale e teorica dell’arte), che oggi si possa parlare di una critica testuale, interpretativa, poetica che sappia leggere l’opera secondo paradigmi storici, visivi, antropologici, meta testuali. La ragione è semplice : è sparito il concetto di opera, c’è solo la sua spoglia. La critica curatoriale poi non è una critica, ma una maniera di esprimere i propri pensieri sull’arte in una scala di simpatie personali di valori soggettivi dove l’artista finisce per corrispondervi, rientrare, convergere , in cui è scelto, celebrato, prodotto. Questa è una fine tragica per l’artista; dico tragica non nel senso nichilista, ma proprio nel senso di una sottomissione irresponsabile, un abbandonare il campo prima di giocare , una compravendita dove appunto gli artisti non sono più autori o i soggetti di un pensiero che si manifesta nell’opera, ma leve di una manovra più generale che si svolge altrove. Conosco molti curatori che stimo con cui mi piacerebbe affrontare queste questioni, ridiscutere sulle cose dell’arte, ma è quasi impossibile. In Italia resiste ancora un certo atteggiamento post-modernista di evasione, di nascondimento, di refrattarietà ad ogni coscienza e consapevolezza pubblica e scientifica. E’ un piccolo mondo chiuso solipsistico e avvelenato dove si chiamano gli amici di sempre, i mediocri, quelli più accomodanti, più sempliciotti, quelli che non scrivono, non pensano ecc. Non mi sento quindi in bilico o in sospeso, poiché le competenze specifiche nel mondo dell’arte, almeno in Italia non esistono né sul piano istituzionale né su quello privato, ci sono solo relazioni, confronti, aperture, possibilità, scelte che vanno approfondite in tutti i modi possibili poiché è la stessa esperienza del farsi dell’opera che lo esige. In questo contesto, scrivere, per un artista direi che è una cosa naturale, fa parte del suo universo, del suo farsi spazio, del suo modo di fare arte e interpretare il mondo .

Perché in Italia, a differenza di altre realtà, non esiste nessuna solidarietà e scambio teorico e professionale tra gli artisti? L’Associazione ZONE rappresenta un’eccezione. Utopia o pratica sul campo destinata a cambiare in parte e coraggiosamente una visione limitata e uno scenario provinciale?
In Italia non c’è mai stato un vero sistema dell’arte, ognuno lavora per sé senza pensare che per raggiungere degli obiettivi che abbiano un certo valore sul piano internazionale occorre mettere insieme diversi soggetti e differenti istituzioni pubbliche e private: Fondazioni, Musei, Gallerie, Collezionisti, Critici, Curatori, Riviste di settore, Comuni, Regioni. Siamo lontani da un ambito internazionale dell’arte proprio perché non siamo capaci, a cominciare dagli stessi artisti, di operare insieme, di guardare alla realtà culturale di oggi, alla filosofia, alla scienza, alla fisica teorica, alla sociologia, alla letteratura e soprattutto al dibattito contemporaneo sulla responsabilità dell’artista rispetto non solo all’arte ma anche rispetto alla crisi del capitalismo finanziario, che sembra non avere più fine, alla stessa responsabilità verso l’ambiente, verso il pianeta. ZONE è un tentativo di mettere insieme artisti, teorici, pensatori, filosofi, su un progetto comune. Sono consapevole che in questo paese cambiare qualcosa è molto difficile. Il pantano istituzionale, la mancanza di etica, l’indolenza, la sciatteria e i vocabolari usati dai politici nelle trasmissioni televisive stanno a dimostrare una rozzezza di fondo che ormai ha invaso il paese. ZONE in qualche modo vuole affrontare alcune tematiche attuali come appunto la questione della crisi, la mancanza di vocabolari adeguati ad esprimere il senso delle cose, la questione delle immagini e soprattutto vorrebbe aprire una conversazione e un dibattito sull’arte e sulle cose dell’arte. L’utopia apparteneva a una speranza di cambiamento, a una visione quasi totalizzante del mondo, a un’istanza nichilista, a una realizzazione possibile; direi che al contrario l’intento di ZONE, più che ispirarsi ad un progetto utopico, esprime una contingenza, una necessità , un modo di sopravvivere alla sciagura, ad una dimensione di disgregazione , ad una commercializzazione dell’arte che ha fatto sparire la dimensione dell’opera e lo stesso rapporto con il pubblico.


Il logo dell'associazione ZONE


La critica in Italia si è assopita e adagiata su proposte convenzionali e rassicuranti. ZONE, pur non essendo una galleria, vuole sostenere e promuovere, anche con testi teorici, aprendo un dibattito inedito, nuove dinamiche e scambi tra artisti italiani e stranieri?
Occorrerebbe che anche la critica rivedesse i suoi statuti, come si diceva un tempo ma forse, più semplicemente, bisognerebbe che essa fosse una critica ontologica sull’opera e sul suo universo e non una specie di mare magnum delle simpatie e ammiccamenti, una specie di lobby dove altri decidono per noi bloccando la ricerca degli artisti. Il problema non è quello di critici contro artisti o artisti contro critici, di schieramenti immobili, bloccati negli stereotipi dell’arte contemporanea, ma è quello di esprimere un senso di ricostruzione, di circolazione delle idee e dei progetti in una situazione istituzionale come quella italiana che non fa niente per l’arte, che non ne sa comprendere l’energia poetica, linguistica, veritativa che cambia il senso dello stare nella realtà. Qui non si tratta di sostituirsi alle Gallerie con cui pensiamo si debba tenere un dialogo, in una situazione che vede anch’esse penalizzate e in crisi, ma far ripartire la ricerca, la produzione e l’innovazione con progetti adeguati alla situazione internazionale. Ci vogliono idee di qualità e sapere fare sistema per essere presenti . ZONE è un territorio di confronto , di teorie, pratiche, una zona fatta di tante altre zone del mondo della cultura contemporanea.

Anche nelle Fiere d’arte e nella maggior parte delle gallerie le proposte sono sempre le stesse. Il fruitore e i frequentatori abituali, non guardano e non parlano più di quello che vedono, vi è distacco e noia. Come si resuscita l’interesse e si può eccitare il nuovo pubblico?
In realtà nelle Fiere dell’arte, in Italia infatti ce ne sono molte rispetto al resto del mondo, non si vede alcunché, la visione delle opere viene annichilita dallo spettacolo, dal numero delle opere presenti, dalla kermesse. Vedere ha sempre a che fare con la conoscenza , se non si conosce non si vede . Non si vede perché non si percepisce. Forse è proprio questa dimensione del percepire, del sentire che è sparita. Tutto ciò che esiste, esiste come cosa o come coscienza, e non c’è via di mezzo, scriveva Merleau Ponty . La cosa è in un luogo ma la percezione non è in nessun luogo: infatti se fosse situata, essa non potrebbe far esistere per se stessa le altre cose, giacché riposerebbe in sé alla maniera delle cose. La percezione è quindi pensiero di percepire. Guardare è anche un percepire un qualcosa che si offre. Se questa offerta non ha uno sfondo che apre al vedere, allora si percepiscono solo le figure come sfondo, ma in realtà niente si vede se non lo sfondo. La logica del quadro che si mostra è tutt’altra, esige una richiesta di attenzione, di umiltà, di silenzio. Ecco il motivo per cui noi vediamo le stesse cose nelle fiere: queste cose, quadri, oggetti, video, fotografie, sono sfumati di sfondi, non lo sfondo da cui distinguiamo le cose. In altri termini guardare un oggetto così come un quadro significa venirlo ad abitare, e da qui cogliere tutte le cose. Manca una prospettiva spaziale che è anche quella temporale. In questo senso nelle fiere la fruizione è abolita . Esistono solo sguardi che si incrociano e che discutono di prezzi di un quadro, di un artista, di un altro, di uno stand più o meno fatto bene. Non dico che tutto ciò sia negativo, ma solo che non si può ridurre tutto un modo di operare dell’arte, il suo procedere, il suo senso, la qualità e la cifra linguistica dell’opera in un sistema fieristico sempre più spettacolarizzato. Il vero interesse verso un pubblico consapevole lo si ottiene a partire da altri spazi che le istituzioni hanno l’obbligo di creare, spazi istituzionali, informativi, sostenuti e curati da persone serie e professionali. Bisogna ripartire dalle scuole dove le ore dedicate alla storia dell’arte sono sempre più ridotte, dalle Accademie che devono essere un vero motore di ricerca e di conoscenze sull’arte. Ma qui il discorso si fa complicato. L’arte è un bene di tutti, forse il più alto bene ma non possiamo trattarlo così.

L’associazione ZONE, ha anche messo in cantiere un progetto di pubblicazione editoriale, in collaborazione con la casa editrice Mimesis, collana Imago. Alcuni idee sono già una realtà e in corso di pubblicazione, come il tuo saggio: “Le diarchie dell’arte”. E’ un esempio di come la teoria si visualizza in esperienza reale e condivisa, aperta a nuove idee e suggestioni. Questo progetto collaterale di ZONE, oltre che provocare scompiglio e turbamento, potrebbe trasformarsi in un polo di energie e azioni in divenire e sempre attivo?
Poiché è necessario entrare in profondità nelle dinamiche e nella complessità del mondo contemporaneo, non solo per quanto riguarda l’arte, ma anche nella complessità del pensiero, della questione dell’immagine, della cultura visiva delle congiunzioni e disgiunzioni con altri saperi: abbiamo inteso già da tempo insieme a Maurizio Guerri e Andrea Pinotti di aprire una collana dedicata agli scritti degli artisti, del pensiero sull’arte, dell’estetica e degli studi di cultura visuale. La collana, che si chiama Imago per i tipi Mimesis, nasce insieme a ZONE, associazione culturale, studi di cultura visuale , teorie e pratiche dell’arte. Ci sono già in fase di pubblicazione il volume dal titolo “Distruzione delle immagini, immagini della distruzione”, che raccoglie testi inediti di pensatori e filosofi che sono intervenuti al CRAB (Centro di ricerca Arti visive dell’Accademia di Brera) come Wunenburger, Feedberg, Pinotti, Ferrari e un mio saggio dal titolo “Le diarchie dell’arte”. Abbiamo in progetto altre pubblicazioni come un saggio inedito di Denys Riout sul colore a cura di Elisabetta Longari e altro. D’altra parte uno degli scopi di Zone, secondo lo statuto, è promuovere attività editoriali finalizzate alla diffusione del pensiero sull’arte e in particolare al rapporto fra arte, scienza e filosofia attraverso pubblicazioni di libri, libri di artista, monografie, fogli di divulgazione sull’arte contemporanea. Certo, le scritture dell’arte in una situazione come questa dove nessuno più sembra prendere coscienza delle cose, del patrimonio paesaggistico, dei castelli, delle torri, dei monumenti che, tranne qualche raro caso, cadono a pezzi sotto i nostri occhi, possono far rinascere la voglia di cultura. Per far questo occorre rivedere le nostre certezze e abitudini, ripensare il mondo, cambiare, agire. In questo senso bisogna mettere insieme i diversi brandelli della cultura dispersi in un cumulo di macerie da una devastante perversione politica per esigere una riscossa morale, sentimentale, etica ed estetica insieme.

L’associazione ZONE vuole ampliare la sua ricerca e scambio culturale, non solo in ambito milanese ma anche all’estero e uno dei prossimi eventi in programma è un incontro e dibattito tra arte e scienza. Volete distinguervi, ma anche interagire con le restanti realtà culturali e le numerose associazioni esistenti?
Il programma di ZONE è anche quello di favorire l’amore verso l’arte e i suoi saperi, sperimentando anche nuovi ambiti interdisciplinari fra differenti metodologie, rapportandosi così anche con Istituzioni culturali come le Accademie, Università, Fondazioni museali, Istituzioni, Associazioni culturali. In tale contesto è prevista per quest’anno un’ iniziativa su Biotecnologie Robotica ed Estetica. A seguito degli sviluppi delle biotecnologie e dell'affermarsi dell'economia globalizzata, si è recentemente imposto all'attenzione pubblica il problema di una "biopolitica", da intendere non solo come l'assunzione della vita biologica in quanto ambito prioritario del potere politico, ma anche come territorio di una più ampia e indeterminata dimensione socioculturale che coinvolge il corpo e le sue estensioni mediali e, più in generale, la ridefinizione tecnica della sensibilità nell’ambito dell’estetica. Al dibattito parteciperanno esponenti del mondo universitario e accademico.

L’inaugurazione e la presentazione di ZONE, è prevista per il 27 Febbraio, allo Spazio Farini6, a Milano, in via Farini 6. Seguiranno nei mesi successivi, altri eventi e presentazioni. In futuro contate di avere un spazio dal Comune? Le Istituzioni, anche in previsione dell’Expo, cosa fanno realmente nel concreto per sostenere le associazioni no profit per la cultura, come la vostra?
Uno dei problemi per l’avvio di un’associazione culturale come ZONE è stato quello della sede. Gli affitti a Milano, come si sa, sono rimasti così alti, soprattutto per gli studi degli artisti, i laboratori, gli spazi d’incontro, da impedire qualsiasi situazione emergente. Milano sembra favorire molto di più la moda e il suo indotto, con i suoi prezzi e la sua economia, che non la ricerca, lo scambio, l’internalizzazione, la cultura, i nuovi saperi ecc. Per fortuna la Galleria di Giovanna Lalatta in via Farini6 ha messo a disposizione di Zone uno spazio apposito per le attività espositive e culturali. Il 27 Febbraio nello spazio di via Farini6 l’associazione presenterà il suo programma. Nell’occasione della presentazione del progetto gli amici e gli artisti dell’Associazione allestiranno un’iniziativa espositiva di disegni, oggetti, scritti. Il ruolo pubblico istituzionale è molto importante per aiutare gli spazi no profit come il nostro. Sono le Istituzioni pubbliche come il Comune, la Regione, che dovrebbero favorire la ricerca e iniziative che vanno in una direzione internazionale. Purtroppo debbo registrare, e non è una lamentela, che assistiamo al solito modo di gestire le cose, non un dibattito vero sull’associazionismo, non un confronto sui progetti. Tutto continua secondo le vecchie logiche, quelle per cui gli spazi vengono dati ad amici, associazioni finte senza alcun criterio e senza tenere conto della progettualità e dell’impegno. Spero che le cose possano andare diversamente. ZONE, proprio per questo, vuole programmare un incontro fra associazioni, per uno scambio d’idee, progetti, intenti anche in vista dell’Expo.



Nessun commento:

Posta un commento