La poesia fuori dalla stanza
Le
poete fotografate da Dino Ignani
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“La sola cosa
che potevo fare era offrirvi un punto di vista: se vuole scrivere…
la donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé”.
Virginia Woolf
modificherebbe probabilmente con meraviglia e stupore questa
affermazione se avesse conosciuto e fosse stata coinvolta dalla
Compagnia delle poete. Le sue componenti sono tutte autrici straniere
e italo-straniere che scrivono poesia in Italiano. L’originalità
e la forza innovativa di questo gruppo sono determinate dal fatto di
essere non solo cosmopolita e multietnico, ma caratterizzato dalla
volontà progettuale di rivoluzionare il ruolo di autore
e, di
conseguenza, la comunicazione e divulgazione dell’opera stessa. In
Italia sono radicati e sopravvivono molti pregiudizi e luoghi comuni
nei confronti della poesia e di chi la scrive. La scuola italiana non
aiuta certo in questo senso. Gli stessi autori, imposti e insegnati
in modo rigido e superficiale, contribuiscono ad accrescere il
divario tra la vita reale e la possibilità concreta di avere
accesso, non solo come fruitori privilegiati, all’universo
eclettico e trasversale della poesia.
Le poete della
Compagnia, provenienti da continenti ed esperienze professionali e
intellettuali diverse, hanno trovato un terreno comune e di scambio,
traducendo la parola scritta in una visione e in un significato da
ascoltare: un inno all’oralità. Ognuna delle autrici esalta
la propria identità e recupera le proprie origini, ma al
contempo trasforma i propri testi e contenuti in un materiale duttile
e vibrante, da inventare continuamente in diversi contesti, a seconda
delle occasioni. E gli spazi dove la poesia si sente e si guarda sono
molteplici: Biblioteche, Ambasciate, Festival, Musei, Gallerie
d’Arte, Accademie e Teatri in Italia ma anche negli Stati Uniti e
in tutta Europa, diventano così nuovi scenari non solo per
conferenze, dibattiti, seminari, lezioni e congressi, ma soprattutto
per realizzare la messa in scena della poesia.
L’isolamento
voluto e forzato dell’artista, incapace di confrontarsi con gli
altri creatori e di trovare un modo per comunicare attraverso la
propria opera al di fuori del proprio studio e dell’ambito
ristretto degli addetti ai lavori, appartiene a un’epoca e a una
mentalità conservatrice che la Compagnia delle poete ha
abbandonato e dimenticato da molto tempo. Il loro dovrebbe essere un
esempio di libertà e capacità di autogestione,
condivisibile ed esportabile in diversi campi creativi, non solo
circoscritti alla scrittura.
Forse, se la grande
Alda Merini, oggi tardivamente acclamata ma abbandonata ed incompresa
negli anni del manicomio, fosse stata accolta umanamente e
professionalmente da queste “compagne”, il suo destino avrebbe
potuto essere diverso.
Domenica
16 giugno
la
compagnia delle poete
presenta lo spettacolo Novunque
per
info su questo e altri appuntamenti della compagnia delle poete clicca qui
Le vostre
esperienze individuali, esistenziali e letterarie sono arricchite e
scardinate dalla scelta di lavorare a progetti collettivi e corali,
come è il Teatro. Come riuscite a conciliare le singole
personalità e l’unicità della vostra opera con
l’orchestrazione dialettica e complessa che vi siete prefisse?
Mia Lecomte: La
nostra scrittura rimane sempre un fatto singolare, legata appunto al
personale percorso esistenziale, culturale, letterario. Questo è
certo. Ma diventa comune, condivisibile, nel momento in cui
affianchiamo le nostre parole poetiche a quelle delle altre e ci
accorgiamo che la voce della poesia è una sola e ci permette
di suonare insieme. Così nascono anche contaminazioni,
impollinamenti trasversali, debordiamo oltre i nostri confini, tanto
che quando torniamo alla scrittura solitaria, ripeto necessaria, non
siamo più le stesse. Operare trasformazioni profonde è
proprio della poesia come di ogni vera e necessaria forma di
comunicazione umana, non solo artistica e letteraria.
Helene Pareskeva:
Penso dipenda molto dalla personalità di ciascuna di noi. C’è
chi si adatta facilmente e chi ci riesce impegnandosi molto. Io
appartengo alla seconda categoria, ma devo ammettere che la pratica
della coralità mi ha aiutato anche nell’espressione
individuale.
Jacqueline
Spaccini: Innanzitutto v’è da dire che le nostre
personalità sono simili per l’atteggiamento conciliante e la
disponibilità, per l’apertura le une verso le altre e che la
dissomiglianza tra noi diventa un motivo di comprensione e di
arricchimento. Aggiungo che spesso, ascoltando la poesia di una
nostra poeta, ci emozioniamo e può capitare che si dica:
“Ah, perché non l’ho scritta io, questa poesia!”.
Le nostre individualità vengono rispettate nel momento in cui
ci produciamo su scena, ma al tempo stesso siamo un corpo unico
affinché esca una voce unica con varie modulazioni.
Adriana
Langtry: Fino all’incontro con la Compagnia la mia passione per
la scrittura era sempre stata un affare privato, il primo approccio
con un progetto corale mi ha obbligata a confrontarmi con altre
scrittrici e soprattutto con i miei limiti e difetti. Dare voce ai
propri testi, dare loro un corpo, una gestualità, un peso
specifico ha significato innanzitutto imparare a ascoltare e a
interagire con se stessi e con gli altri, un’esperienza che per
momenti può creare disagio ma dalla quale sono sempre uscita
arricchita anche grazie ai rapporti umani e alla solidarietà
di gruppo. Imparare a ascoltare ha modificato anche il mio modo di
scrivere. Ad esempio l’oralità è diventata oggi una
fase importante del processo creativo, nello scrivere mi trovo spesso
a recitare i versi a voce alta in cerca del ritmo giusto, del suono
che renda a quella data poesia la propria musicalità.
Barbara
Serdakowski: La parola poetica che subito evoca una sorta
di intimità, richiama al raccoglimento, fa nascere spontanee
immagini di silenzi e fruizione intimista, in realtà è
già teatro. Il teatro della vita interiore che declamato
subito prende il suo posto e fa risuonare prepotentemente il suo
complesso e stratificato significato. Moltiplicato e diversificato in
più voci non fa altro che arricchirsi, condensarsi in un
trepudio di “senso” potente quanto meravigliosamente
“disponibile” a chi lo sente. Grazie poi alla direzione di Mia,
che da subito ha incluso e non escluso, senza
confini e in modo organico ed elastico, ogni poeta rimane integra e
trova lo spazio a lei necessario, su misura.
Sarah
Zuhra Lukanic: La scelta di accostarmi allla Compagnia delle
poete è nata soprattutto dalla mia esigenza personale e
autentica di lavorare a un progetto corale. La nascita della
Compagnia coincide con un mio ritorno alla poesia, questa volta
scritta in altra lingua. Una coincidenza che mi è sembrata una
scintilla di fortuna. Poi ognuna di noi ha i suoi tempi per
accostarsi al collettivo. Personalmente ho una certa devozione per il
lavoro di gruppo, forse deriva dalle esperienze fatte da piccola, o
come studentessa nei teatri alternativi, dove il collettivo sentire
era un Manifesto molto frequente. Diciamo che sono stata educata a
sottrarmi per migliorarmi. In un collettivo poetico è
importante che ognuna abbia bisogno della poesia altrui. Ma viene
naturale, un istinto che confina con il piacere.
Livia
Bazu: Come concilieremmo una conversazione:
ognuna ascolta, risponde all’altra, c’è una dimensione
comune che si crea nello stare insieme a cui tutte rispondono. E che
tecnicamente, finalizzata alle performances, crea Mia quando elabora
il copione, ma anche tout court
nell’intrattenere il legame tra
tutte.
Melita Richter:
L’unicità sta proprio nel fatto che le singolarità
non si estinguono, rimangono a confronto, si ri-specchiano e
riflettono una luce nuova. Andando incontro una all’altra/e si crea
una newness poetico-culturale inaspettata, intessuta da fili
di esperienze singolari di spessori diversi.
Prisca Agustoni:
Credo che il fatto di collaborare con altre voci rafforzi il dialogo,
l’ascolto e il potere della parola poetica, che per me non è
presente solo nel genere della poesia, ma si trova nel teatro, nella
narrativa, nella musica, in qualsiasi manifestazione umana in cui
l’umano cerchi di tirare fuori il meglio di sé. L’idea di
qualcosa di corale è antica e contemporanea, per questo mi
piace moltissimo. Una volta ho letto una massima in una piazza qui in
Brasile – purtroppo mancava il riferimento all’autore – che
diceva: “Il futuro ha un cuore antico”. Credo che la Compagnia
faccia un po’ questo, attualizzando qualcosa di antico e prezioso.
Begonya Pozo: Per
me la letteratura è sempre un dialogo: con me stessa, con le
mie letture, con i miei possibili lettori, con le altre. Dalla
prospettiva di “lettrice autobiografica” (per dirla con le parole
del filosofo spagnolo Emilio Lledó) considero che il rapporto
tra i testi della Compagnia rende ancora più visibile ciò
che Túa Blesa (teorico della letteratura) individua come
“testualizzazione”, ovvero il collegamento stretto tra vita e
creazione letteraria. Le nostre poesie “dicono” il mondo e “ci
dicono” con molta più forza, dato che le voci sommate
agiscono con tutte le loro potenzialità e arricchiscono i
discorsi (singoli e plurali) di sfumature mai pensate prima. Le
porte-poesie, quindi, non si chiudono mai perché sono in
continuo movimento.
Vera Lúcia
de Oliveira: In effetti, per me almeno, non è stato
facile, anche perché una cosa è scrivere poesia, in
solitudine, una cosa è dirla davanti a tante persone. Poi,
però, ho pensato che io non ero mai stata sola, neanche quando
avevo scritto o quando scrivo, perché per me scrivere è
dialogare, comunicare, avere dentro molte voci, oltre alla mia, voci
accolte da me e fatte un po’ mie. Con questa consapevolezza, ho
cercato di vincere la mia timidezza viscerale, mi sono affacciata su
dei palcoscenici e ho guardato i volti delle tante mie voci, in primo
luogo quelle delle amiche-poete della Compagnia, accanto a me,
vicine.
Laure
Cambau: Nella nostra
comunione-comunità c’è spazio per tutte le
contraddizioni umane ed artistiche, e rivalità e rapporti di
forza sono del tutto esclusi. Un vero miracolo, per me, nel “piccolo
mondo” letterario in cui gravitiamo. Potrei paragonare
quest’esperienza a un’orchestra da camera: “strumenti” anche
molto diversi, voci differenti e sempre all’ascolto le une delle
altre, riuniti in un progetto comune, che alla fine restituiscono una
sonorità particolare, un suono “Compagnia delle poete”. È
un’esperienza unica, un collettivo dove si è a un tempo
autori, attori, interpreti, spettatori, “ascoltatori”…
Gli accademici
e i critici, soprattutto italiani, come hanno accolto all’inizio la
vostra Compagnia? In un certo senso voi potete essere paragonate ai
Futuristi, che per la prima volta vollero gestire la loro produzione
e i loro programmi al di fuori delle Istituzioni e del mercato. Da
una parte, il vostro ruolo rivitalizza un mondo stantio e polveroso,
dall’altra scardina posizioni e competenze radicati nel tempo.
Mia Lecomte: La
critica letteraria non esiste da anni, è un’emanazione
impacciata del mercato o di cricche autistiche. Gli accademici fanno
da secoli gli accademici, con tutti i limiti che questo comporta, e
qualche importante pregio, sempre isolato. I termini di confronto
sono cambiati, il mondo è cambiato, il potere si è
asserragliato in una trincea di fumo, un miraggio stanco che possiamo
riconoscere come tale solo ci decidiamo ad attraversarlo, insieme,
con deliberata incoscienza.
Helene Parskeva:
Spontaneamente risponderei “E perché no?” Ma
ultimamente accademici e critici ci accolgono con curiosità,
interesse e anche con simpatia. Sbaglio?
Jacqueline
Spaccini: Mi pare che la Compagnia sia
stata accolta con benevolenza, anche se a volte si evoca la
letteratura della migrazione come una sorta di ghetto di lusso
intellettuale, come qualcosa che non è inserito nella realtà
quotidiana. Comunque, a dire la verità, non mi sono granché
interessata a questo aspetto. Quel che conta è poter
diffondere la poesia che esce dalla pagina e si fa – tornando alle
radici – trasmissione orale.
Barbara
Serdakowski: La poesia in generale, italiana in
particolare, ha bisogno di linfa vitale, non è una scia da
seguire, non è lo strascico del vestito nuziale della Poesia
con la “P” maiuscola. La poesia si crea, si vive, si affronta nel
quotidiano. Si osa. Io come poeta non mi confronto con la Poesia, io
la vivo nel quotidiano e da me sgorga. I poeti che provengono da
diversi posti portano, come sempre per chi arriva d’altrove,
sapori, colori, odori nuovi; senza nemmeno volerlo allargano confini
e con il loro fiato/vento spolverano posizioni stantie.
Sarah
Zuhra Lukanic: Mi sembra ci sia tanta curiosità per il
nostro modo di gestire la Compagnia, il processo è in corso.
Penso che la nostra esperienza attragga e stimoli vari spettatori.
Per quanto riguarda gli accademici non so, a volte non si
sbilanciano, rimangono schiacciati dal contenuto, dalle ibridazioni,
dalle contaminazioni che raccolgono varie provenienze delle poete
stesse, quindi non è per loro un compito semplice analizzare
una poetica tanto “globalizzata”.
Melita
Richter: Non ne so molto, non ho seguito
l’‘accoglienza’ della Compagnia da parte degli accademici e dei
critici del settore; so invece che ove si porti l’esperienza del
nostro progetto, sia direttamente sulla scena, che in convegni,
Università, incontri culturali e/o altro, l’esperienza della
Compagnia è accolta con plauso, curiosità, lodi e
auspici di continuità. Questo è bello, questo ci nutre
di nuove energie. Ma ho dei dubbi che il nostro agire particolare
smuova le acque di un mondo stantio… Ancora meno che possa
scardinare posizioni e competenze radicati nel tempo. Agiamo e
gestiamo la nostra ‘produzione’ al di fuori dei mercati e delle
Istituzioni, ma non trovo felice l’accostamento all’esperienza
futurista: non siamo un movimento, non ci nutriamo di un
atteggiamento ‘sdegnoso e aristocratico’, non ci lasciamo carpire
da esaltazioni ideologiche, neppure abbiamo un Manifesto… Anche se
forse potremmo scriverlo!
Prisca
Agustoni: Anch’io sono un po’
scettica quanto al fatto che il nostro agire possa smuovere le acque
di un mondo stantio... Non abbiamo grossi mezzi economici per il
nostro lavoro – non che sia fondamentale per la qualità e
per l’arte, ma lo è per poter permettersi una visibilità
veloce e facile, tanto in voga nei tempi attuali – per cui,
lasciamo fare le cose al tempo, senza voler abbracciare il mondo, ma
cerchiamo di costruire il nostro quotidiano, dentro e fuori la
Compagnia, con senso e misura. E, quando è possibile, con
bellezza.
Begonya
Pozo: Pian piano si sente parlare di
letteratura italofona (direi che di più fuori le
macrostrutture letterarie italiane) ai convegni, seminari, riviste
internazionali, ecc. Il processo è lento, ma c’è.
Come sempre, il nucleo del “potere lettearario” che segue il
canone non è tanto permeabile, ma il movimento ormai è
iniziato e non si può arrestare.
Vera Lúcia
de Oliveira: In generale, in Italia, gli accademici e i critici
non dicono molto, credo. Si interessano poco a queste e altre
esperienze del genere, e non parlo solo della Compagnia delle poete,
ma anche di ognuna di noi, nella sua esperienza di scrittrice, anche
prima di far parte del gruppo. Per questo nostro essere al confine
fra lingue e frontiere, poniamo problemi diversi perché
osserviamo il mondo e l’Italia da punti di vita differenti, mobili,
cangianti. E non vogliamo scegliere, non vogliamo incardinarci in una
poetica, in un modello, in un canone. Questo ci emargina a priori, ma
penso che ognuna di noi lo avesse messo in conto quando ha intrapreso
il cammino della poesia.
Saggiste,
filosofe, psicanaliste, letterate, traduttrici, antropologhe,
drammaturghe, musiciste, critiche, giornaliste, informatiche, artiste
e molto altro… Guardando le vostre esperienze e competenze, si deve
dedurre che chi scrive oggi non può avere conoscenze solo
letterarie e di padronanza linguistica. Un certo atteggiamento
persistente maschilista guarda invece con sospetto questa ricchezza e
complessità, che sfugge ad un certo dominio intellettuale e
alla possibilità di circoscrivere chi si vuole controllare.
Siete consapevoli di questi durevoli e inevitabili meccanismi,
soprattutto in Italia?
Mia Lecomte: Se
devo guardare alla mia esperienza personale, in realtà sono
stata molto fortunata, ho sempre avuto con l’universo maschile un
rapporto davvero privilegiato. Padre, fratello, cugini, amici,
fidanzati, mariti, figli, “colleghi” di tutti i generi… sono
stati, e sono tuttora, i miei fans più sfegatati, mi hanno
sempre protetta, incoraggiata e promossa con un entusiasmo tale da
farmi temere con imbarazzo di non essere all’altezza di tante
esagerate aspettative. Qualche problema se mai l’ho avuto proprio
con una certa “competitività” femminile, tanto in
contrasto con il mio modo di sentire, di vivere, che a quasi
cinquant’anni ancora non ho imparato a prevederla e a difendermi.
Ma la voglia di divertirmi facendo cose belle insieme agli altri,
uomini o donne che siano, nel tempo è rimasta superiore a
tutto. Per quanto concerne la scrittura, credo basti a se stessa, le
“competenze” riguardano altri ambiti.
Helene Paraskeva:
No, non ne ero consapevole. Io sono docente di lingua e
letteratura angloamericana in un liceo. Una professione per vivere.
Grazie anche a questa professione ho tratto molta ispirazione,
esperienze, conoscenze, amarezze e qualche soddisfazione. Questi
“durevoli e inevitabili meccanismi” sono paralizzanti e
sinceramente non mi faccio paralizzare o inibire da ciò che
pensano gli altri, maschilisti o non. Il poeta John Keats non è
morto solo di malattia ma anche della cattiveria dei suoi critici.
Jacqueline
Spaccini: Come no.
Barbara
Serdakowski: Personalmente sento che i meccanismi ci sono,
ma dovuti più alla volontà “istituzionale” di
mantenere posizioni, equilibri e controlli che a una posizione
maschilista di per sé.
Sarah
Zuhra Lukanic: Non solo in Italia direi, un doppio-lavoro
femminile e un perenne cucire la storia parallela di disuguaglianza.
Un crossover di varie discipline che possono solo arricchire
la presentazione della poesia. Alcune delle poete hanno competenze
eccellenti che trasmettono alle altre, come dice un meraviglioso
verso di Vera Lúcia de Oliveira : “…come se ognuna
dovesse all’altra / la strada da fare e quella già fatta”.
Quindi assistiamo a un completamento e a una fiducia che innesca la
bellezza della poesia altrui. L’aspetto maschilista? A volte è
silenzioso, non confessato. Quindi quando rispondono solo donne è
in un certo senso una risposta a senso unico. Mi piacerebbe sentire
gli uomini che parlano del loro maschilismo.
Livia
Bazu: Consapevolissima, e del tutto
indifferente.
Melita
Richter: Sì, certamente. Li
trovo tentativi inutili: la poesia non è controllabile, sfugge
a tutte le imbrigliature.
Prisca
Agustoni: Anch’io sono perfettamente
consapevole, ci rifletto spesso – anche come insegnante, davanti a
intere classi di studentesse (future insegnanti) – e non perdo mai
l’occasione per stimolare la riflessione critica. Credo sia una
sfida che non possiamo abbandonare: bisogna resistere, combattere con
la persistenza, la tenacia, la tenerezza, quando possibile, la
convinzione interiore che quello che si fa è importante ed
edificante (per me, per la società). E poi anche la società
pian piano cambia, si apre, molla per un istante la sua presa, quindi
si guadagna terreno…
Begonya
Pozo: Condivido tutto pienamente.
Vera Lúcia
de Oliveira: Penso che una donna sia sempre più libera di
un uomo, perché il suo corpo conosce la genesi, l’unirsi di
un granellino di senso ad un altro granellino nascosto di anima e
terra. E toccare la genesi è arrivare al nucleo del mondo,
arrivare a Dio. Per questo suo camminare sfiorando i bordi, la donna
accoglie e respinge con cura e forza, e questo fa paura. Conosco
molti uomini che hanno paura delle donne, anche uomini colti, ma per
fortuna ne conosco degli altri che si sentono più ricchi dal
contatto con il pensiero e il movimento perenne del vivere di donna.
Laure
Cambau: Sono inesorabilmente "tagliata
in due": una parte pianista, l'altra poetessa. Matrimonio allo
stesso tempo felice, e piovoso qualche volta. La notte, la mattina,
le mie due sorelle siamesi si svegliano, mi svegliano, coppia
innamorata, spesso armoniosa e qualche volta sull'orlo di una crisi
di nervi: l'una scrive nel buio, l'altra suona nella luce. Tuttavia
le mani sono le stesse e anche il cervello (forse?). Le parole si
spingono, mi spingono, mi svegliano. È una combinazione
strana, ricchezza, certamente, le note cercano le frasi, le parole
incontrano i suoni in un disordine coltivato. Qualche volta, va fino
alla vertigine tanto il misto sembra inestricabile: una discussione
schizofrenica? Ricchezza, certamente, ma di fronte a una società
(francese) cartesiana dedicata ad incasellare i cittadini in
compartimenti stagni e non negoziabili, può diventare presto
un handicap. Scrivere o suonare: la scelta è fatta, non
scelgo, non so scegliere. Dovrebbero strapparmi un arto, ma quale?
Sono nata con gli occhi pieni di parole e due mani in bianco e nero.
La Compagnia
delle poete è nata per iniziativa di Mia Lecomte, che tutt’ora
è coordinatrice e punto di riferimento per le sue compagne. Il
poeta Edoardo Sanguineti è stato per il “Gruppo 63” il
teorico e promotore della ricerca e della sperimentazione
d’avanguardia linguistica ed artistica. A parte Nanni Balestrini,
che ha seguito poi un suo percorso personale nell’ambito della
Poesia Visuale e nel teatro, è stato difficile per i
componenti avere una loro autonomia al di fuori di quel movimento,
che era anche fortemente orientato politicamente. Come riuscite a
mantenere equilibrio e unità di gruppo? E il vostro impegno
sociale e intellettuale è anche politico?
Mia Lecomte: Le
altre mi dicono scherzosamente che sono il loro Mister… Io so solo
che mi capita spesso di essere molto fiera dell’insieme di noi come
gruppo, e delle singole poete. Quando, durante gli spettacoli, mi
astraggo un momento mi succede di inorgoglirmi pensando: “Ma guarda
com’è brava, com’è bella…”, riferendomi ad un
tempo alla poesia e alla sua autrice. Il nostro equilibrio è
fatto di questa complicità senza difese – e mi dicono che
durante le performance il pubblico lo avverte con forza – di questa
vicinanza che non è superficialmente di genere ma nasce
spontanea, quasi per miracolo, dal profondo della nostra umanità
migliore. E per merito della poesia. L’impegno sociale e politico
risiedono concretamente in questo.
Helene Pareskeva:
Mia coordina e organizza gli spettacoli della Compagnia e quando
vi partecipo diventa per me l’unico punto di riferimento, una
bussola per tutto ciò che riguarda la performance, fino nei
minimi dettagli. E se qualche volta mi sono posta un quesito, devo
dire di aver trovato subito una risposta e di averla pienamente
condivisa..
Non mi sento
limitata da Mia per quanto riguarda l’impegno sociale e
intellettuale. Non vado sbandierando il mio orientamento
politico-sociale, ma quando è necessario non esito ad agire
secondo ciò che penso.
Jacqueline
Spaccini: Dico sempre che questa
Compagnia ha una cosa abbastanza anormale: è composta di
persone normali. L’equilibrio viene da lì. L’unità
viene dal fatto che stiamo molto bene insieme e che non ci sono prime
donne. Anzi, è motivo di orgoglio e di onore per ognuna di noi
recitare/interpretare il poema di un’altra (che per un motivo o per
un altro sia assente). Quando ciò si verifica, ci viene
naturale cercare di riprodurre i suoni di quel poema con le stesse
inflessioni, cesure e musicalità della sua creatrice. Per
quanto riguarda il mio impegno sociale e intellettuale, esso è
fondamentalmente umano. Politico è tutto. Non è
partitico.
Barbara
Serdakowski: C’è piena autonomia di muoversi in
ogni direzione e ogni tanto confluire all’interno della Compagnia.
Anzi, direi che proprio in questo risiede parte della stravolgente
forza del gruppo: quello che portiamo da fuori diventa richezza. Se
ci sono impegni personali, sociali, o politici, è lasciato
alla discrezione di ognuna di esprimerlo attraverso la propria arte e
visione poetica. La linea guida è la poesia, e non è
richiesto che nessuna “parte” della poeta venga lasciata fuori
dalla porta d’entrata. Questo è il rispetto che Mia
elargisce a ognuna di noi, in tal modo responsabilizzata nei
confronti delle altre: si porta tutto di noi stesse ma attraverso la
metabolizzazione dell’esperienza e dell’espressione poetica.
Sarah
Zuhra Lukanic: Penso che la figura poliedrica di Mia, assieme
alle sue competenze ed esplorazioni della poesia migrante, ne
facciano la vera Maestra del Gioco, come Stanislavskij
definiva la figura del regista. Quindi finché lei è
disponibile a questa nostra esplorazione il progetto è
impermeabile, ha le sue regole dentro la sregolatezza delle poetiche.
Lei cuce i copioni, però lascia la libertà di
correggersi a vicenda. Quindi non c’è dubbio che senza una
figura ferma tutto ciò sarebbe diverso, o non possibile.
Personalmente conosco anche altri gruppi di poetesse, ma non così
interessanti professionalmente, ricchi e nuovi. Di sicuro Mia è
una capitana eccellente.
Livia
Bazu: Non c’è unità di gruppo,
in senso buono cioè non c’è uniformità, non è
affatto richiesta, né appunto un orientamento così
fortemente indirizzato. Essendo la poetica dichiarata quella della
molteplicità, sarebbe innaturale.
Melita Richter:
Mia è collante di questa esperienza, è creatrice e
inventrice di percorsi nuovi; su essi noi non siamo schiacciate,
siamo ‘invitate’ come compagne di un viaggio senza una meta
prefissa da raggiungere. Aderiamo consapevoli a questo tragitto
ondulante perché esso non annulla il nostro baricentro, non ci
priva dell’asse d’equilibrio individuale. Mentre ci regala
l’incontro. Aprendoci una all’altra/e, ci consente di abbeverarsi
della parola altrui, restituendola infine a tutte, mutata,
prismatica. In un mondo che (tuttora) non riconosce il valore della
pluralità di voci di provenienze altre, questo impegno
diventa implicitamente politico.
Prisca Agustoni:
Livia e Melita hanno espresso con precisione e accuratezza il mio
pensiero.
Vera Lúcia
de Oliveira: L’idea è stata di Mia, ma è lei
anche che unisce e ordisce di volta in volta le nostre poesie e voci,
trovando percorsi comuni e inusitati. E talvolta, quando ci
incontriamo, vedo che prendono vita intensa e coerente quelle poesie
messe in dialogo aperto e alternato con le altre, come se fossero
state dall’inizio pensate e scritte proprio per stare così,
per stare insieme. Il ruolo di Mia è anche questo e la sua
stessa casa è diventata il nodo in cui convergono i nostri
percorsi e le nostre esperienze che lì si incontrano e si
intrecciano. E lei, con affetto, ci accoglie e offre questa
possibilità.
In Italia
anche il teatro è diviso in compartimenti di programma e di
pubblico ben precisi: Goldoni o il teatro sperimentale. La vostra
esperienza d’ibridazione e ricerca poetica, anche se si esprime nel
Teatro come canale privilegiato, potrebbe essere riconducibile anche
a manifestazioni artistiche come quella di Jenny Holzer, che
visualizza i suoi testi in installazioni luminose, o addirittura
nelle performance dadaiste, o nella frammentazione del testo nei
video di ultima generazione. Quali sono i vostri riferimenti
artistici e letterari?
Mia Lecomte:
Veniamo tutte da culture, esperienze artistiche, territori
culturali e linguistici molto diversi tra loro. Dunque è
difficile trovare riferimenti comuni. Direi che la chiave sta proprio
nella contaminazione, nella scintilla artistica che scaturisce
all’incrocio ogni volta nuovo, disassato (e mai autoreferenziale)
dei plurimi cammini.
Helene Paraskeva:
Non conosco Jenny Holzer ma i miei riferimenti vanno dal Carro di
Tespi prima dei grandi tragici fino al Teatro dell’Assurdo e al
Living Theatre. Il dadaismo l’ho conosciuto nella frammentarietà
della poesia di TS Eliot. Nell’estate 2011 ho seguito al teatro
antico di Epidauro la performance di Riccardo III con la regia di Sam
Mendes e protagonista Kevin Spacey. Gli spettatori erano 9.000.
Vedere Shakespeare interpretato nel teatro antico da attori moderni e
diretto da un regista moderno, per me questo è teatro perché
oltrepassa, sconfigge la storia.
Jacqueline
Spaccini: Io faccio anche teatro di
prosa, in Francia. In una compagnia si fanno i classici, nell’altra
– di cui sono anche co-fondatrice – Les
400 Louves – facciamo testi portati
sulle donne, diciamo «femministi», senza che questa
etichetta evochi chiusure aprioristiche. Non ho particolari
riferimenti artistici e letterari, probabilmente sono così
dentro di me da non riuscire più a distinguersi.
Barbara
Serdakowski: Nel mio caso
particolare i miei riferimenti letterari personali sono sicuramente
fortemente ancorati al teatro sperimentale, al surrealismo, al
dadaismo attraverso personaggi come Ionesco, Beckett, Pirandello,
Boris Vian, Tzara, Hans Arp, Man Ray, Breton, Sartre, Camus, Picasso,
Picabia…; insieme, un miscuglio di letteratura sudamericana, a
partire dal realismo magico di Marquez, e un impasto di poesia
spagnola classicista, francese dei poètes maudits, dei
sudamericani Neruda, o Borges. Apprezzo molto il lavoro di Milan
Kundera, o Haruki Murakami...
Sarah
Zuhra Lukanic: Secondo me il lavoro con la Compagnia è
piuttosto istintivo, rituale. C’è sempre un ritiro prima
dello spettacolo, che incide per la condivisione totale: il cibo, i
figli, la quotidianità, i successi, le angosce, le perdite
etc. È una specie di Lanterna Magica dove Grotowski
costruiva nel laboratorio un teatro povero. Ecco, c’è
una forma mentis che cambia, non c’è un modello. Secondo me,
ognuna di noi arriva con il suo bagaglio, lo apre, mescola gli
stracci. Una specie di scambio di vestiti, discreto ed
elegante. Noi abbiamo una certa cura l’una verso l’altra. Forse è
proprio questo che incanta e sorprende.
Melita
Richter: La
nostra esperienza di ibridazione si riflette sicuramente nella
inconsapevole ibridazione di riferimenti artistici e letterari.
Ognuna porta nel proprio bagaglio culturale dei flash di
modelli/modalità artistiche di un altrove per lei
significativo. Che senso avrebbe dire che io lo trovi nell’opera
poetica di Josefina Dautbegovic, chi la conosce in Italia? O nelle
performance poetiche di Darko Curdo nei caffè fumosi
zagabresi? A chi importa dei versi dell’ebreo milanese-triestino
Feruccio
Fölkel, o di Etel Adnan, straordinaria poeta-scrittrice-pittrice
libanese?...
I
nostri riferimenti artistici e letterari rimangono schermati da un
riparo culturale personale che trae le radici nelle nostre biografie
disseminate nel mondo. Le schegge di queste si raccolgono in
movimenti corporei, in voci e suoni, luci e ombre che nascono
rinnovati in ogni performance/spettacolo/recita della Compagnia.
Prisca
Agustoni: Ognuna
di noi porta con sé un bagaglio ricco e sfacettato di
riferimenti, e non solo poetici o teatrali. In questo consiste anche
l’originalità della Compagnia: non rispondiamo a un
programma, a un Manifesto unico, ma abbiamo tutte un percorso di
formazione (intellettuale e personale) fatto di ibridazioni e
spostamenti (letture, viaggi, indirizzi, bagagli, oggetti), viaggi
nel tempo e nella geografia, processi di ricerche interiori che
universalizzano, in un certo senso, la nostra esperienza.
Begonya
Pozo: La
scrittrice migrante Najat el Hactmi dice sulla letteratura catalana:
“O si contamina, o muore”. Anch’io la penso così e credo
quest’idea riguardi tutte le letterature. Noi non siamo diverse:
abbiamo bisogno della transnazionalità e della
transculturalità, e ne siamo consapevoli. Senza ibridazione il
discorso letterario è un discorso povero, inutile, morto.
Vera Lúcia
de Oliveira: I miei riferimenti artistici e letterari sono tutte
le esperienze che mi arricchiscono, che mi emozionano, sono aperta
all’arte, alla letteratura e al mondo in generale, aperta ai nuovi
mezzi di comunicazione e affascinata da tutte le possibilità
di incontro con gli altri. Non ho mai pensato che la poesia fosse una
limitazione, anzi, per arrivare a fondo e sempre più dentro
l’anima delle cose bisogna avere fame e voracità di vita,
ingordigia di libri, colori, paesaggi, opere d’arte, e volti,
lacrime, gesti, sguardi, carezze, gemiti, offese. Questo è il
mio alimento, è il nostro alimento.
All’estero,
in America o in Olanda, il poeta è un professionista che
lavora contemporaneamente per il cinema, l’editoria, il teatro, la
pubblicità. La Beat Generation annovera autori che hanno
collaborato anche con le rockstar o come drammaturghi in teatro. In
Italia è difficile anche solo pubblicare testi di poesia
contemporanea. Sentite il peso di questi limiti? Come si trovano dei
percorsi alternativi come la Compagnia delle poete? Quali consigli
date a un poeta che si ostina a vivere e lavorare in Italia?
Mia Lecomte: In
Italia e altrove, nel momento storico in cui stiamo vivendo non c’è
niente di facile e scontato. Non bisogna, credo, peccare di
provincialismo esaltando le realtà fuori confine. Il mondo che
avevamo imparato a conoscere non esiste più, sta deflagrando –
ma anche rinnovandosi, ed è nostro dovere impegnarci a
scoprire ed evidenziare i cambiamenti, al di là di quello che
vogliono mostrarci – in tutti i suoi aspetti. Non esistono
consigli, ricette, bisogna solo sintonizzarsi con l’apocalisse e
darle onestamente voce, con coraggio e visionarietà. Ognuno
nel proprio campo.
Helene Pareskeva:
In Italia i poeti fanno qualche altra cosa per vivere. Pubblicare
è difficile, essere accettati e riconosciuti è
difficile. Consiglio di non perdersi mai d’animo, provare ogni
strada possibile. Insistere. Diventare ostinati.
Jacqueline
Spaccini: Non sono assolutamente in grado di rispondere a questa
domanda, se non dicendo che sento il peso e lo porto tutto. Il
percorso alternativo l’ha creato Mia, io ho avuto la fortuna di
essere da lei contattata. Non ho fatto granché, a parte
aderirvi con tutta la passione che mi contraddistingue. Nessun
consiglio, ognuno ha il suo percorso. Ognuno fa le sue scelte. E
l’Italia non è un posto meno buono di un altro. C’è
molta mitologia a proposito della cosiddetta «eccellenza»
estera.
Adriana
Langtry: L’incontro
con la Compagnia è avvenuto per me dopo la pubblicazione di
alcune mie poesie su “El Ghibli”, rivista online di letteratura
della migrazione alla quale qualche anno fa decisi di mandare dei
testi. Cercavo uno spazio letterario che potesse accogliere i miei
versi costruiti a partire dall’intreccio dello spagnolo, la mia
lingua di origine, con l’italiano. Pensai che solo un mondo aperto
ai migranti potesse cogliere il senso (a volte molto sofferto) di
quell’ibridazione linguistica che rispecchia in qualche modo la
forma mentis di noi immigrati. Fu una scelta azzeccata allora e
continua ad esserlo oggi. L’incontro con le poete della Compagnia
mi ha aperta a nuove esperienze artistiche e umane.
Barbara
Serdakowski: Il consiglio è uno solo: produrre
poesia viva. Leggere, viaggiare, vedere cose diverse, mangiare cibi
diversi, svegliarsi ad orari diversi, pensare pensieri diversi e
scrivere. Cercare collaborazioni con gli altri paesi, più
particolarmente europei, giacché c’è un certo tipo di
apertura comparatistica e quindi può risultare interessante
pubblicare su riviste letterarie internazionali.
Sarah
Zuhra Lukanic: Siamo certamente consapevoli che in Italia è
tutto molto più difficile. Ma mi viene ora in mente un mio
amico poeta e professore macedone, che mi diceva analizzando la
Compagnia delle poete : “Voi siete anni luce più avanti di
quello che succede nella poesia croata, macedone etc”. Non so se da
altre parti ci siano esperienze del genere, quindi il nostro Bel
Paese non è sempre così oscuro. E a volte è
proprio nei crepuscoli che si nasconde qualcosa di bello e
inconsueto.
Melita
Richter: Non avrei consigli da dare, non mi è
vicino il concetto di un/una poeta ‘professionista’, che ‘lavora
per…’.
Prisca
Agustoni: Vivo da sempre fuori dal
contesto italiano (prima a Ginevra, poi in Brasile), conosco da
vicino altre realtà letterarie, ma tutto sommato non vedo
grosse differenze quanto al ruolo del poeta. Non ho mai conosciuto
nessun poeta che vivesse del proprio lavoro di poeta; di narratore
sì, mi sembra abbastanza frequente, anche in un paese come il
Brasile questa pratica oggi è comune, ma non esenta da grossi
interrogativi quanto alla libertà di scrittura della quale lo
scrittore usufruisce. Anch’io non ho consigli da dare, se non di
credere in quello che si fa, e di preservare perlomeno lo spazio
della creazione dal mondo pragmatico e dall’idea del mercato.
Eva
Taylor: Io invece sento fortemente il
peso di questo limite, non perché credo che ci sia bisogno di
un poeta professionista, a tempo pieno, ma forse a tempo determinato
sì. Scusate l’espressione amministrativa, ma la uso per
segnalare che un aggancio con il mondo pubblico è una sfida
per qualsiasi artista, perché diventa più urgente la
necessità di mediazione con un pubblico. Credo che un impegno
con un teatro, una biblioteca, con un’Università in un
programma ‘writer in residence’
creerebbe una maggiore mediazione a livello della società, in
una forma di impegno non concettuale, ma tramite azioni concrete. Ed
è questo che non vedo, perché la critica non si apre a
queste nuove voci “strane”, “straniere”. Manca quindi un
vincolo simbolico riconosciuto e espresso con la società. Con
questo non voglio dire che noi possiamo rappresentare la società,
ma sicuramente si potrebbe dare più attenzione – appunto
simbolica – per quel discorso corale, i contatti linguistici che
avvengono nella lingua italiana da alcuni decenni e di cui la
Compagnia è un’espressione. Si tratterebbe quindi di dare
visibilità al processo nel suo complesso.
Vera Lúcia
de Oliveira: Sono nata e cresciuta in Brasile e vengo da una
lingua in cui, nelle sue varie letterature, non c’è un
confine netto fra poesia e musica, per cui per me è
connaturale pensare alle due cose insieme. In Italia, invece, ho
sentito una volta una nota poetessa affermare in televisione che è
un orrore dire che una canzone (e si parlava di De Andrè) è
una poesia. Per me lo è, molte canzoni di De Andrè sono
vere poesie, così come, in ambito brasiliano, lo sono quelle
di Vinicius de Moares, Chico Buarque de Holanda o Caetano Veloso. Non
ho trovato per niente strano unire varie forme di espressione
artistica, anche se, personalmente, per alcune sono proprio negata…
Il bello dei nostri spettacoli è che ognuna dà quello
che ha, quello in cui si trova a proprio agio, quello in cui finisce
che rivela a se stessa una nuova dimensione della sua identità
più intima e vera.
Dopo il ‘68
il Femminismo ha contribuito ad un radicale cambiamento,
all’emancipazione del ruolo femminile. Il degrado culturale e
morale attuale, sia politico che sociale, hanno confuso le idee e
distorto alcuni presupposti e conquiste di quel tempo. Come si
traduce la vostra posizione in riferimento a queste esperienze?
Mia Lecomte: La
solidarietà fra esseri umani non è limitabile ad un
discorso di genere. Ed è la solidarietà, insieme causa
e risultato del degrado, a mancare, al di là della questione
sul ruolo femminile. Il nostro progetto artistico prevede che quelle
donne che incidentalmente siamo solidarizzino fra di loro e con ciò
che le circonda tramite la poesia, esprimendosi e operando ciascuna
con la propria femminilità a cultura (poetica) variabile.
Helene Pareskeva:
Siamo consapevoli delle insidie dei cliché suoi ruoli
precostituiti e le trappole delle etichette. Ognuna di noi vive le
molteplici dimensioni di donna, madre, moglie e professionista e
altre ancora. Ma la dimensione artistica ci fa trovare insieme e
viviamo nella coralità questa esperienza. Quando siamo unite,
iniziamo a parlare la stessa lingua, usiamo lo stesso codice. Ci
capiamo e cerchiamo di creare una cosa comune e unica.
Jacqueline
Spaccini: Mettendo la donna al centro della nostra esperienza.
Non tacendo delle contraddizioni, mostrando le debolezze e regalando
i punti di forza, la nostra umana e altrui esperienza di donne, che
si traduce nelle parole fatte soprattutto per essere ascoltate e non
lette.
Barbara
Serdakowski: Per me è importante andare avanti.
Unire il femminile con il maschile e non alimentare la guerra dei
sessi. I ruoli si andranno definendo con l’attrito necessario per
trovare i nuovi preziosi equilibri.
Sarah
Zuhra Lukanic: Il Femminismo italiano ha avuto problemi nel
cosiddetto passaggio di testimone, sono certa che c’è stata
una chiusura tra privato e pubblico. Ma le nuove generazioni di donne
stanno cercando di riparare.
Livia
Bazu: Essere semplicemente donne, e poete, e
vivere quindi la nostra persona e la nostra poesia, oltre che
l’esperienza di “essere in Compagnia”, in modo tale da
realizzare l’espressione il più possibile piena, profonda e
libera di ciò che siamo: di per sé combatte già
il degrado.
Melita
Richter: Il Femminismo non ha
contribuito all’emancipazione del ruolo femminile, ma del soggetto
donna, dell’essere donna. Il ruolo cercano di fissarcelo sempre lo
stesso: gerarchizzato e biologizzante (procreazione, nutrizione,
cura, amore incondizionato, sopravvivenza). Ma le donne non ci
stanno più e la poesia non accetta le subordinazioni. Io trovo
che siamo forti perché parliamo/sentiamo/scriviamo versi
percependo la realtà in modi diversi, se necessario anche
sovversivi, intrecciando le
nostre voci. È questo il modo in cui agiscono per lo più
le donne? Non saprei. Forse non basta. Non basta percepire la realtà
in modo diverso, bisogna non stancarsi di cercare la meraviglia, non
perdere lo stupore. È con essi che resistiamo al degrado
morale.
Prisca
Agustoni: Come figlia, poeta,
insegnante, madre, nuora, cognata, zia, moglie, amica, collega di
lavoro, paziente di un medico ecc… cerco, in ognuno di questi
ruoli, di mantenere la mia coerenza, di credere che un mondo più
giusto lo si crea tutti assieme, uomini e donne. E siamo anche madri
di figli maschi, quindi in parte direttamente responsabili per alcuni
dei valori morali che questi avranno. Credo in un nucleo della mia
persona, intoccabile, che nessuna esperienza esterna potrà mai
cambiare, indipendentemente dal fatto che io sia nata donna e che
viva ogni giorno gli aspetti più belli e quelli più
duri di questa condizione.
Avete
dichiarato che non è facile lavorare con un regista durante la
realizzazioni dei vostri spettacoli teatrali. Difficile coordinare e
imporre la propria conduzione a così tante autrici, che sono
anche attrici e interpreti dei propri testi. Avete deciso di fare a
meno, quando potete, di questa figura?
Mia Lecomte: Non
è facile maneggiare teatralmente la poesia, in particolare in
questo miscuglio inedito ed esplosivo di intenzioni. Questo è
il motivo per cui dopo il primo spettacolo esplorativo, “Acromazie”,
e l’esperienza de “Le altre” con l’Accademia di Brera,
abbiamo sempre fatto a meno della collaborazione di registi esterni
alla Compagnia. D’altra parte abbiamo figure di riferimento
teatrali anche tra noi: Jacqueline Spaccini, Sarah Zuhra Lukanic e
soprattutto Candelaria Romero, argentina diplomata all’Accademia
d’arte drammatica di Stoccolma, che è autrice e regista
teatrale ed esercita da anni in Italia; o l’amica Vesna Stanic,
scrittrice e poeta croata che ha lavorato a lungo in cinema e teatro
e che spesso ci affianca appunto con le sue competenze, pur non
essendo a tutti gli effetti parte del gruppo. Io costruisco
dapprincipio i copioni, dunque con una proposta registica già
nella testa, assemblo i nostri testi poetici secondo vari criteri
“teatrali”, e stabilisco le entrate e gli interventi musicali,
che poi vengono provati direttamente con i musicisti coinvolti. Ma a
parte questa prima fase, che è mia esclusiva competenza – ho
un archivio di tutti i testi delle poete, che studio da anni, e
dunque uno sguardo globale sulla loro opera –, svolgo da sola
perché sarebbe altrimenti impossibile tracciare un percorso
definito, riconducibile a una poetica unitaria, tutto il resto viene
facendosi durante le prove, con idee e suggerimenti di tutte, e degli
artisti che ci affiancano.
Helene Pareskeva:
Personalmente ho trovato abbastanza utile anche il contributo
delle registe, quando non sono mortificanti. Ma, ripeto, non
antepongo la mia individualità, cerco sempre di imparare.
Barbara
Serdakowski: Ci pensa Mia che è fortemente
intuitiva e con grande delicatezza e rispetto assoluto amalgama il
tutto dando spazio e visibilità a ciascuna di noi, sempre
pronta a integrare quello che “funziona”.
Sarah
Zuhra Lukanic: Forse il primo nostro spettacolo con una regista
ci ha fatto capire come non vogliamo che sia uno spettacolo della
nostra Compagnia. Lei era anche una brava regista, ma questo non
esclude che non avesse capito il progetto. Comunque, secondo me siamo
sempre pronte a varie collaborazioni, quindi si tratta di una regia
quasi collettiva.
Livia
Bazu: Sì, perché l’esperienza
con direzione esterna ha mostrato che non possiamo entrare nella
visione di un altro in quanto strumenti plastici, come gli attori in
parte, giustamente, devono essere, e sanno essere; mentre la maggior
parte di noi, da una parte e dall’altra, anche nella costruzione
della visione (del senso, dell’atmosfera, del ritmo, ecc) della
performance, aveva da ridire alquanto... Ponendoci come autrici
entravamo in “conflitto di competenza”, non per gerarchia ma per
materia.
Anche il
video, potrebbe essere uno strumento espressivo congeniale alla
poesia, facilitato dalla rapida e facile diffusione attraverso i
social network e Internet. Non avete mai pensato di realizzare dei
video, non solo come documento dei vostri progetti ma inteso come
opera autonoma da inserire nei Festival nazionali e internazionali?
Mia
Lecomte: Oltre al video-promo di Sarah
Zuhra Lukanic, che ci racconta molto bene, la scenografia di uno dei
due spettacoli che portiamo in giro, “Madrigne” è proprio
un video realizzato per noi dall’artista tedesca Janine Von
Thüngen: un montaggio delle riprese che ognuna delle poete ha
fatto in maniera volutamente amatoriale nella propria quotidianità,
uno spaccato della famosa “stanza tutta per sé”; venti
microstorie che scorrono poeticamente, in cui sono stati poi isolati
anche dei momenti di gestualità simbolica, una carrellata
concentrata soprattutto sulle mani e sui piedi. L’abbiamo usato
spesso anche da solo, in abbinamento a un montaggio vocale che ho
costruito io in studio di registrazione, un assemblaggio delle nostre
voci poetiche realizzato con criteri eminentemente musicali.
Sarah
Zuhra Lukanic: Sarebbe bellissimo avere una video-storia
del progetto, anche per analizzarlo meglio. Ma è un lavoro che
richiede una dedizione non indifferente, dovremmo essere affiancate
da una persona che ci segue.
10) In un periodo
di cambiamenti epocali, geografici e culturali, il segreto della
Compagnia è forse nell’unione del gruppo, nel rispetto e
valorizzazione della diversità, che si può riassumere
in questi versi di Sujata Bhatt: ”…perché questo è
il luogo / dove non mi sento mai a casa / questo è il luogo /
dove mi sento sempre a casa”. La poesia, ancora una volta, intesa
come strumento di libertà spaziotemporale?
Mia Lecomte:
“Casa” è una parola grossa, almeno per me. Coincide con
“famiglia”, nel senso più esteso del termine. E dunque
anche con la Compagnia. Si identifica con un “qui” sempre
agognato, non avvicinabile che attraverso la poesia.
Helene Pareskeva:
Sicuramente. Questo concetto si trova in tutte le mie risposte e
scommetto riaffiori nelle risposte di tutte noi.
Jacqueline
Spaccini: Il concetto di casa è molto aleatorio per chi
come noi, come me, ha radici solo aeree. La prima – e ultima –
volta che ho comprato una casa tutta mia (nella quale peraltro non
abito che 20 gg l’anno) è stato 9 anni fa, all’età
di 46 anni. Stessa età per la mia prima (ma non ultima)
automobile. Persone come noi, come me, hanno una stanzialità
di tipo gitano. Personalmente dopo due anni che vivo in un paese,
divento insofferente e ho già voglia di ripartire e
ricominciare altrove. Non ho eccessivo interesse per l’arredamento.
Fondamentalmente le case in cui ho abitato hanno librerie e divani
letto. La casa è un concetto mentale, è laddove si sta
al caldo. Laddove ci si riconosce. La poesia, il palcoscenico, le
strade, i treni, gli aerei, gli alberghi, il percorso. Le mie
migliori poesie nascono lontano da una casa vera. Spesso in aereo o
in treno.
Sarah
Zuhra Lukanic: La poesia come salvezza. Io credo nella
purezza del verso altrui. Quindi nello slogan che la diversità
è ricchezza, e non sempre la diversità nazionale o
geografica. Ma nel nostro caso la lingua italiana è il luogo
per sperimentare le nostre diversità, come dice bene la
poesia di Barbara Pumhösel: “Ci sono parole che hanno / la
buccia in una lingua / e la polpa in un’altra / con un morso si
attraversa / due mondi e il nocciolo / germogliando ne partorisce /
una terza che contiene / noi, gli altri e il passato, / ci avvolge e
ci sopravvivrà”.
Livia
Bazu: Sì, ovviamente.
Melita
Richter: Sì, uno spazio al di fuori di
tutti i luoghi, colmo di dislocazioni variegate e spostamenti
temporali; è il terzo spazio
che offre dimora a soggettività in transito e in continuo
movimento.
Prisca
Agustoni: Senza dubbio. Libertà
e piacere: fondamentali nella vita ma così difficili da
preservare!
Begonya
Pozo: Sì, sempre.
Vera Lúcia
de Oliveira: La Compagnia delle poete mi ha dato la possibilità
di vedere la parola, il verso, uscire dalla pagina del libro, uscire
dal mio corpo e arrivare a toccare l’altro. Non avevo compreso così
bene e intensamente questo potere fisico che ha la parola poetica non
solo di suscitare emozioni, ma di vibrare nell’aria, colpire un
volto, scontrarsi con un corpo, prendere le forme aeree di un passo
di danza, avere movenze di donne vive e vere, agitarsi, aggirarsi,
rompere le righe, provocare risposte, sollecitare azioni, donarsi con
impeto e gioia.
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