sabato 15 giugno 2013

StorieReali presenta: INTERVISTA CORALE ALLA COMPAGNIA DELLE POETE

La poesia fuori dalla stanza

Le poete fotografate da Dino Ignani

La sola cosa che potevo fare era offrirvi un punto di vista: se vuole scrivere… la donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé”.
Virginia Woolf modificherebbe probabilmente con meraviglia e stupore questa affermazione se avesse conosciuto e fosse stata coinvolta dalla Compagnia delle poete. Le sue componenti sono tutte autrici straniere e italo-straniere che scrivono poesia in Italiano. L’originalità e la forza innovativa di questo gruppo sono determinate dal fatto di essere non solo cosmopolita e multietnico, ma caratterizzato dalla volontà progettuale di rivoluzionare il ruolo di autore
e, di conseguenza, la comunicazione e divulgazione dell’opera stessa. In Italia sono radicati e sopravvivono molti pregiudizi e luoghi comuni nei confronti della poesia e di chi la scrive. La scuola italiana non aiuta certo in questo senso. Gli stessi autori, imposti e insegnati in modo rigido e superficiale, contribuiscono ad accrescere il divario tra la vita reale e la possibilità concreta di avere accesso, non solo come fruitori privilegiati, all’universo eclettico e trasversale della poesia.
Le poete della Compagnia, provenienti da continenti ed esperienze professionali e intellettuali diverse, hanno trovato un terreno comune e di scambio, traducendo la parola scritta in una visione e in un significato da ascoltare: un inno all’oralità. Ognuna delle autrici esalta la propria identità e recupera le proprie origini, ma al contempo trasforma i propri testi e contenuti in un materiale duttile e vibrante, da inventare continuamente in diversi contesti, a seconda delle occasioni. E gli spazi dove la poesia si sente e si guarda sono molteplici: Biblioteche, Ambasciate, Festival, Musei, Gallerie d’Arte, Accademie e Teatri in Italia ma anche negli Stati Uniti e in tutta Europa, diventano così nuovi scenari non solo per conferenze, dibattiti, seminari, lezioni e congressi, ma soprattutto per realizzare la messa in scena della poesia.
L’isolamento voluto e forzato dell’artista, incapace di confrontarsi con gli altri creatori e di trovare un modo per comunicare attraverso la propria opera al di fuori del proprio studio e dell’ambito ristretto degli addetti ai lavori, appartiene a un’epoca e a una mentalità conservatrice che la Compagnia delle poete ha abbandonato e dimenticato da molto tempo. Il loro dovrebbe essere un esempio di libertà e capacità di autogestione, condivisibile ed esportabile in diversi campi creativi, non solo circoscritti alla scrittura.
Forse, se la grande Alda Merini, oggi tardivamente acclamata ma abbandonata ed incompresa negli anni del manicomio, fosse stata accolta umanamente e professionalmente da queste “compagne”, il suo destino avrebbe potuto essere diverso.


Domenica 16 giugno 
la compagnia delle poete 
presenta lo spettacolo Novunque
per info su questo e altri appuntamenti della compagnia delle poete clicca qui




Le vostre esperienze individuali, esistenziali e letterarie sono arricchite e scardinate dalla scelta di lavorare a progetti collettivi e corali, come è il Teatro. Come riuscite a conciliare le singole personalità e l’unicità della vostra opera con l’orchestrazione dialettica e complessa che vi siete prefisse?

Mia Lecomte: La nostra scrittura rimane sempre un fatto singolare, legata appunto al personale percorso esistenziale, culturale, letterario. Questo è certo. Ma diventa comune, condivisibile, nel momento in cui affianchiamo le nostre parole poetiche a quelle delle altre e ci accorgiamo che la voce della poesia è una sola e ci permette di suonare insieme. Così nascono anche contaminazioni, impollinamenti trasversali, debordiamo oltre i nostri confini, tanto che quando torniamo alla scrittura solitaria, ripeto necessaria, non siamo più le stesse. Operare trasformazioni profonde è proprio della poesia come di ogni vera e necessaria forma di comunicazione umana, non solo artistica e letteraria.
Helene Pareskeva: Penso dipenda molto dalla personalità di ciascuna di noi. C’è chi si adatta facilmente e chi ci riesce impegnandosi molto. Io appartengo alla seconda categoria, ma devo ammettere che la pratica della coralità mi ha aiutato anche nell’espressione individuale.
Jacqueline Spaccini: Innanzitutto v’è da dire che le nostre personalità sono simili per l’atteggiamento conciliante e la disponibilità, per l’apertura le une verso le altre e che la dissomiglianza tra noi diventa un motivo di comprensione e di arricchimento. Aggiungo che spesso, ascoltando la poesia di una nostra poeta, ci emozioniamo e può capitare che si dica: “Ah, perché non l’ho scritta io, questa poesia!”. Le nostre individualità vengono rispettate nel momento in cui ci produciamo su scena, ma al tempo stesso siamo un corpo unico affinché esca una voce unica con varie modulazioni.
Adriana Langtry: Fino all’incontro con la Compagnia la mia passione per la scrittura era sempre stata un affare privato, il primo approccio con un progetto corale mi ha obbligata a confrontarmi con altre scrittrici e soprattutto con i miei limiti e difetti. Dare voce ai propri testi, dare loro un corpo, una gestualità, un peso specifico ha significato innanzitutto imparare a ascoltare e a interagire con se stessi e con gli altri, un’esperienza che per momenti può creare disagio ma dalla quale sono sempre uscita arricchita anche grazie ai rapporti umani e alla solidarietà di gruppo. Imparare a ascoltare ha modificato anche il mio modo di scrivere. Ad esempio l’oralità è diventata oggi una fase importante del processo creativo, nello scrivere mi trovo spesso a recitare i versi a voce alta in cerca del ritmo giusto, del suono che renda a quella data poesia la propria musicalità.
Barbara Serdakowski: La parola poetica che subito evoca una sorta di intimità, richiama al raccoglimento, fa nascere spontanee immagini di silenzi e fruizione intimista, in realtà è già teatro. Il teatro della vita interiore che declamato subito prende il suo posto e fa risuonare prepotentemente il suo complesso e stratificato significato. Moltiplicato e diversificato in più voci non fa altro che arricchirsi, condensarsi in un trepudio di “senso” potente quanto meravigliosamente “disponibile” a chi lo sente. Grazie poi alla direzione di Mia, che da subito ha incluso e non escluso, senza confini e in modo organico ed elastico, ogni poeta rimane integra e trova lo spazio  a lei necessario, su misura.
Sarah Zuhra Lukanic: La scelta di accostarmi allla Compagnia delle poete è nata soprattutto dalla mia esigenza personale e autentica di lavorare a un progetto corale. La nascita della Compagnia coincide con un mio ritorno alla poesia, questa volta scritta in altra lingua. Una coincidenza che mi è sembrata una scintilla di fortuna. Poi ognuna di noi ha i suoi tempi per accostarsi al collettivo. Personalmente ho una certa devozione per il lavoro di gruppo, forse deriva dalle esperienze fatte da piccola, o come studentessa nei teatri alternativi, dove il collettivo sentire era un Manifesto molto frequente. Diciamo che sono stata educata a sottrarmi per migliorarmi. In un collettivo poetico è importante che ognuna abbia bisogno della poesia altrui. Ma viene naturale, un istinto che confina con il piacere.
Livia Bazu: Come concilieremmo una conversazione: ognuna ascolta, risponde all’altra, c’è una dimensione comune che si crea nello stare insieme a cui tutte rispondono. E che tecnicamente, finalizzata alle performances, crea Mia quando elabora il copione, ma anche tout court nell’intrattenere il legame tra tutte.
Melita Richter: L’unicità sta proprio nel fatto che le singolarità non si estinguono, rimangono a confronto, si ri-specchiano e riflettono una luce nuova. Andando incontro una all’altra/e si crea una newness poetico-culturale inaspettata, intessuta da fili di esperienze singolari di spessori diversi.
Prisca Agustoni: Credo che il fatto di collaborare con altre voci rafforzi il dialogo, l’ascolto e il potere della parola poetica, che per me non è presente solo nel genere della poesia, ma si trova nel teatro, nella narrativa, nella musica, in qualsiasi manifestazione umana in cui l’umano cerchi di tirare fuori il meglio di sé. L’idea di qualcosa di corale è antica e contemporanea, per questo mi piace moltissimo. Una volta ho letto una massima in una piazza qui in Brasile – purtroppo mancava il riferimento all’autore – che diceva: “Il futuro ha un cuore antico”. Credo che la Compagnia faccia un po’ questo, attualizzando qualcosa di antico e prezioso.
Begonya Pozo: Per me la letteratura è sempre un dialogo: con me stessa, con le mie letture, con i miei possibili lettori, con le altre. Dalla prospettiva di “lettrice autobiografica” (per dirla con le parole del filosofo spagnolo Emilio Lledó) considero che il rapporto tra i testi della Compagnia rende ancora più visibile ciò che Túa Blesa (teorico della letteratura) individua come “testualizzazione”, ovvero il collegamento stretto tra vita e creazione letteraria. Le nostre poesie “dicono” il mondo e “ci dicono” con molta più forza, dato che le voci sommate agiscono con tutte le loro potenzialità e arricchiscono i discorsi (singoli e plurali) di sfumature mai pensate prima. Le porte-poesie, quindi, non si chiudono mai perché sono in continuo movimento.
Vera Lúcia de Oliveira: In effetti, per me almeno, non è stato facile, anche perché una cosa è scrivere poesia, in solitudine, una cosa è dirla davanti a tante persone. Poi, però, ho pensato che io non ero mai stata sola, neanche quando avevo scritto o quando scrivo, perché per me scrivere è dialogare, comunicare, avere dentro molte voci, oltre alla mia, voci accolte da me e fatte un po’ mie. Con questa consapevolezza, ho cercato di vincere la mia timidezza viscerale, mi sono affacciata su dei palcoscenici e ho guardato i volti delle tante mie voci, in primo luogo quelle delle amiche-poete della Compagnia, accanto a me, vicine.
Laure Cambau: Nella nostra comunione-comunità c’è spazio per tutte le contraddizioni umane ed artistiche, e rivalità e rapporti di forza sono del tutto esclusi. Un vero miracolo, per me, nel “piccolo mondo” letterario in cui gravitiamo. Potrei paragonare quest’esperienza a un’orchestra da camera: “strumenti” anche molto diversi, voci differenti e sempre all’ascolto le une delle altre, riuniti in un progetto comune, che alla fine restituiscono una sonorità particolare, un suono “Compagnia delle poete”. È un’esperienza unica, un collettivo dove si è a un tempo autori, attori, interpreti, spettatori, “ascoltatori”…

Gli accademici e i critici, soprattutto italiani, come hanno accolto all’inizio la vostra Compagnia? In un certo senso voi potete essere paragonate ai Futuristi, che per la prima volta vollero gestire la loro produzione e i loro programmi al di fuori delle Istituzioni e del mercato. Da una parte, il vostro ruolo rivitalizza un mondo stantio e polveroso, dall’altra scardina posizioni e competenze radicati nel tempo.

Mia Lecomte: La critica letteraria non esiste da anni, è un’emanazione impacciata del mercato o di cricche autistiche. Gli accademici fanno da secoli gli accademici, con tutti i limiti che questo comporta, e qualche importante pregio, sempre isolato. I termini di confronto sono cambiati, il mondo è cambiato, il potere si è asserragliato in una trincea di fumo, un miraggio stanco che possiamo riconoscere come tale solo ci decidiamo ad attraversarlo, insieme, con deliberata incoscienza.
Helene Parskeva: Spontaneamente risponderei “E perché no?” Ma ultimamente accademici e critici ci accolgono con curiosità, interesse e anche con simpatia. Sbaglio?
Jacqueline Spaccini: Mi pare che la Compagnia sia stata accolta con benevolenza, anche se a volte si evoca la letteratura della migrazione come una sorta di ghetto di lusso intellettuale, come qualcosa che non è inserito nella realtà quotidiana. Comunque, a dire la verità, non mi sono granché interessata a questo aspetto. Quel che conta è poter diffondere la poesia che esce dalla pagina e si fa – tornando alle radici – trasmissione orale.
Barbara Serdakowski: La poesia in generale, italiana in particolare, ha bisogno di linfa vitale, non è una scia da seguire, non è lo strascico del vestito nuziale della Poesia con la “P” maiuscola. La poesia si crea, si vive, si affronta nel quotidiano. Si osa. Io come poeta non mi confronto con la Poesia, io la vivo nel quotidiano e da me sgorga. I poeti che provengono da diversi posti portano, come sempre per chi arriva d’altrove, sapori, colori, odori nuovi; senza nemmeno volerlo allargano confini e con il loro fiato/vento spolverano posizioni stantie.
Sarah Zuhra Lukanic: Mi sembra ci sia tanta curiosità per il nostro modo di gestire la Compagnia, il processo è in corso. Penso che la nostra esperienza attragga e stimoli vari spettatori. Per quanto riguarda gli accademici non so, a volte non si sbilanciano, rimangono schiacciati dal contenuto, dalle ibridazioni, dalle contaminazioni che raccolgono varie provenienze delle poete stesse, quindi non è per loro un compito semplice analizzare una poetica tanto “globalizzata”.
Melita Richter: Non ne so molto, non ho seguito l’‘accoglienza’ della Compagnia da parte degli accademici e dei critici del settore; so invece che ove si porti l’esperienza del nostro progetto, sia direttamente sulla scena, che in convegni, Università, incontri culturali e/o altro, l’esperienza della Compagnia è accolta con plauso, curiosità, lodi e auspici di continuità. Questo è bello, questo ci nutre di nuove energie. Ma ho dei dubbi che il nostro agire particolare smuova le acque di un mondo stantio… Ancora meno che possa scardinare posizioni e competenze radicati nel tempo. Agiamo e gestiamo la nostra ‘produzione’ al di fuori dei mercati e delle Istituzioni, ma non trovo felice l’accostamento all’esperienza futurista: non siamo un movimento, non ci nutriamo di un atteggiamento ‘sdegnoso e aristocratico’, non ci lasciamo carpire da esaltazioni ideologiche, neppure abbiamo un Manifesto… Anche se forse potremmo scriverlo!
Prisca Agustoni: Anch’io sono un po’ scettica quanto al fatto che il nostro agire possa smuovere le acque di un mondo stantio... Non abbiamo grossi mezzi economici per il nostro lavoro – non che sia fondamentale per la qualità e per l’arte, ma lo è per poter permettersi una visibilità veloce e facile, tanto in voga nei tempi attuali – per cui, lasciamo fare le cose al tempo, senza voler abbracciare il mondo, ma cerchiamo di costruire il nostro quotidiano, dentro e fuori la Compagnia, con senso e misura. E, quando è possibile, con bellezza.
Begonya Pozo: Pian piano si sente parlare di letteratura italofona (direi che di più fuori le macrostrutture letterarie italiane) ai convegni, seminari, riviste internazionali, ecc. Il processo è lento, ma c’è. Come sempre, il nucleo del “potere lettearario” che segue il canone non è tanto permeabile, ma il movimento ormai è iniziato e non si può arrestare.
Vera Lúcia de Oliveira: In generale, in Italia, gli accademici e i critici non dicono molto, credo. Si interessano poco a queste e altre esperienze del genere, e non parlo solo della Compagnia delle poete, ma anche di ognuna di noi, nella sua esperienza di scrittrice, anche prima di far parte del gruppo. Per questo nostro essere al confine fra lingue e frontiere, poniamo problemi diversi perché osserviamo il mondo e l’Italia da punti di vita differenti, mobili, cangianti. E non vogliamo scegliere, non vogliamo incardinarci in una poetica, in un modello, in un canone. Questo ci emargina a priori, ma penso che ognuna di noi lo avesse messo in conto quando ha intrapreso il cammino della poesia.

Saggiste, filosofe, psicanaliste, letterate, traduttrici, antropologhe, drammaturghe, musiciste, critiche, giornaliste, informatiche, artiste e molto altro… Guardando le vostre esperienze e competenze, si deve dedurre che chi scrive oggi non può avere conoscenze solo letterarie e di padronanza linguistica. Un certo atteggiamento persistente maschilista guarda invece con sospetto questa ricchezza e complessità, che sfugge ad un certo dominio intellettuale e alla possibilità di circoscrivere chi si vuole controllare. Siete consapevoli di questi durevoli e inevitabili meccanismi, soprattutto in Italia?

Mia Lecomte: Se devo guardare alla mia esperienza personale, in realtà sono stata molto fortunata, ho sempre avuto con l’universo maschile un rapporto davvero privilegiato. Padre, fratello, cugini, amici, fidanzati, mariti, figli, “colleghi” di tutti i generi… sono stati, e sono tuttora, i miei fans più sfegatati, mi hanno sempre protetta, incoraggiata e promossa con un entusiasmo tale da farmi temere con imbarazzo di non essere all’altezza di tante esagerate aspettative. Qualche problema se mai l’ho avuto proprio con una certa “competitività” femminile, tanto in contrasto con il mio modo di sentire, di vivere, che a quasi cinquant’anni ancora non ho imparato a prevederla e a difendermi. Ma la voglia di divertirmi facendo cose belle insieme agli altri, uomini o donne che siano, nel tempo è rimasta superiore a tutto. Per quanto concerne la scrittura, credo basti a se stessa, le “competenze” riguardano altri ambiti.
Helene Paraskeva: No, non ne ero consapevole. Io sono docente di lingua e letteratura angloamericana in un liceo. Una professione per vivere. Grazie anche a questa professione ho tratto molta ispirazione, esperienze, conoscenze, amarezze e qualche soddisfazione. Questi “durevoli e inevitabili meccanismi” sono paralizzanti e sinceramente non mi faccio paralizzare o inibire da ciò che pensano gli altri, maschilisti o non. Il poeta John Keats non è morto solo di malattia ma anche della cattiveria dei suoi critici.
Jacqueline Spaccini: Come no.
Barbara Serdakowski: Personalmente sento che i meccanismi ci sono, ma dovuti più alla volontà “istituzionale” di mantenere posizioni, equilibri e controlli che a una posizione maschilista di per sé.
Sarah Zuhra Lukanic: Non solo in Italia direi, un doppio-lavoro femminile e un perenne cucire la storia parallela di disuguaglianza. Un crossover di varie discipline che possono solo arricchire la presentazione della poesia. Alcune delle poete hanno competenze eccellenti che trasmettono alle altre, come dice un meraviglioso verso di Vera Lúcia de Oliveira : “…come se ognuna dovesse all’altra / la strada da fare e quella già fatta”. Quindi assistiamo a un completamento e a una fiducia che innesca la bellezza della poesia altrui. L’aspetto maschilista? A volte è silenzioso, non confessato. Quindi quando rispondono solo donne è in un certo senso una risposta a senso unico. Mi piacerebbe sentire gli uomini che parlano del loro maschilismo.
Livia Bazu: Consapevolissima, e del tutto indifferente.
Melita Richter: Sì, certamente. Li trovo tentativi inutili: la poesia non è controllabile, sfugge a tutte le imbrigliature.
Prisca Agustoni: Anch’io sono perfettamente consapevole, ci rifletto spesso – anche come insegnante, davanti a intere classi di studentesse (future insegnanti) – e non perdo mai l’occasione per stimolare la riflessione critica. Credo sia una sfida che non possiamo abbandonare: bisogna resistere, combattere con la persistenza, la tenacia, la tenerezza, quando possibile, la convinzione interiore che quello che si fa è importante ed edificante (per me, per la società). E poi anche la società pian piano cambia, si apre, molla per un istante la sua presa, quindi si guadagna terreno…
Begonya Pozo: Condivido tutto pienamente.
Vera Lúcia de Oliveira: Penso che una donna sia sempre più libera di un uomo, perché il suo corpo conosce la genesi, l’unirsi di un granellino di senso ad un altro granellino nascosto di anima e terra. E toccare la genesi è arrivare al nucleo del mondo, arrivare a Dio. Per questo suo camminare sfiorando i bordi, la donna accoglie e respinge con cura e forza, e questo fa paura. Conosco molti uomini che hanno paura delle donne, anche uomini colti, ma per fortuna ne conosco degli altri che si sentono più ricchi dal contatto con il pensiero e il movimento perenne del vivere di donna.
Laure Cambau: Sono inesorabilmente "tagliata in due": una parte pianista, l'altra poetessa. Matrimonio allo stesso tempo felice, e piovoso qualche volta. La notte, la mattina, le mie due sorelle siamesi si svegliano, mi svegliano, coppia innamorata, spesso armoniosa e qualche volta sull'orlo di una crisi di nervi: l'una scrive nel buio, l'altra suona nella luce. Tuttavia le mani sono le stesse e anche il cervello (forse?). Le parole si spingono, mi spingono, mi svegliano. È una combinazione strana, ricchezza, certamente, le note cercano le frasi, le parole incontrano i suoni in un disordine coltivato. Qualche volta, va fino alla vertigine tanto il misto sembra inestricabile: una discussione schizofrenica? Ricchezza, certamente, ma di fronte a una società (francese) cartesiana dedicata ad incasellare i cittadini in compartimenti stagni e non negoziabili, può diventare presto un handicap. Scrivere o suonare: la scelta è fatta, non scelgo, non so scegliere. Dovrebbero strapparmi un arto, ma quale? Sono nata con gli occhi pieni di parole e due mani in bianco e nero.

La Compagnia delle poete è nata per iniziativa di Mia Lecomte, che tutt’ora è coordinatrice e punto di riferimento per le sue compagne. Il poeta Edoardo Sanguineti è stato per il “Gruppo 63” il teorico e promotore della ricerca e della sperimentazione d’avanguardia linguistica ed artistica. A parte Nanni Balestrini, che ha seguito poi un suo percorso personale nell’ambito della Poesia Visuale e nel teatro, è stato difficile per i componenti avere una loro autonomia al di fuori di quel movimento, che era anche fortemente orientato politicamente. Come riuscite a mantenere equilibrio e unità di gruppo? E il vostro impegno sociale e intellettuale è anche politico?

Mia Lecomte: Le altre mi dicono scherzosamente che sono il loro Mister… Io so solo che mi capita spesso di essere molto fiera dell’insieme di noi come gruppo, e delle singole poete. Quando, durante gli spettacoli, mi astraggo un momento mi succede di inorgoglirmi pensando: “Ma guarda com’è brava, com’è bella…”, riferendomi ad un tempo alla poesia e alla sua autrice. Il nostro equilibrio è fatto di questa complicità senza difese – e mi dicono che durante le performance il pubblico lo avverte con forza – di questa vicinanza che non è superficialmente di genere ma nasce spontanea, quasi per miracolo, dal profondo della nostra umanità migliore. E per merito della poesia. L’impegno sociale e politico risiedono concretamente in questo.
Helene Pareskeva: Mia coordina e organizza gli spettacoli della Compagnia e quando vi partecipo diventa per me l’unico punto di riferimento, una bussola per tutto ciò che riguarda la performance, fino nei minimi dettagli. E se qualche volta mi sono posta un quesito, devo dire di aver trovato subito una risposta e di averla pienamente condivisa..
Non mi sento limitata da Mia per quanto riguarda l’impegno sociale e intellettuale. Non vado sbandierando il mio orientamento politico-sociale, ma quando è necessario non esito ad agire secondo ciò che penso.
Jacqueline Spaccini: Dico sempre che questa Compagnia ha una cosa abbastanza anormale: è composta di persone normali. L’equilibrio viene da lì. L’unità viene dal fatto che stiamo molto bene insieme e che non ci sono prime donne. Anzi, è motivo di orgoglio e di onore per ognuna di noi recitare/interpretare il poema di un’altra (che per un motivo o per un altro sia assente). Quando ciò si verifica, ci viene naturale cercare di riprodurre i suoni di quel poema con le stesse inflessioni, cesure e musicalità della sua creatrice. Per quanto riguarda il mio impegno sociale e intellettuale, esso è fondamentalmente umano. Politico è tutto. Non è partitico.
Barbara Serdakowski: C’è piena autonomia di muoversi in ogni direzione e ogni tanto confluire all’interno della Compagnia. Anzi, direi che proprio in questo risiede parte della stravolgente forza del gruppo: quello che portiamo da fuori diventa richezza. Se ci sono impegni personali, sociali, o politici, è lasciato alla discrezione di ognuna di esprimerlo attraverso la propria arte e visione poetica. La linea guida è la poesia, e non è richiesto che nessuna “parte” della poeta venga lasciata fuori dalla porta d’entrata. Questo è il rispetto che Mia elargisce a ognuna di noi, in tal modo responsabilizzata nei confronti delle altre: si porta tutto di noi stesse ma attraverso la metabolizzazione dell’esperienza e dell’espressione poetica.
Sarah Zuhra Lukanic: Penso che la figura poliedrica di Mia, assieme alle sue competenze ed esplorazioni della poesia migrante, ne facciano la vera Maestra del Gioco, come Stanislavskij definiva la figura del regista. Quindi finché lei è disponibile a questa nostra esplorazione il progetto è impermeabile, ha le sue regole dentro la sregolatezza delle poetiche. Lei cuce i copioni, però lascia la libertà di correggersi a vicenda. Quindi non c’è dubbio che senza una figura ferma tutto ciò sarebbe diverso, o non possibile. Personalmente conosco anche altri gruppi di poetesse, ma non così interessanti professionalmente, ricchi e nuovi. Di sicuro Mia è una capitana eccellente.
Livia Bazu: Non c’è unità di gruppo, in senso buono cioè non c’è uniformità, non è affatto richiesta, né appunto un orientamento così fortemente indirizzato. Essendo la poetica dichiarata quella della molteplicità, sarebbe innaturale.
Melita Richter: Mia è collante di questa esperienza, è creatrice e inventrice di percorsi nuovi; su essi noi non siamo schiacciate, siamo ‘invitate’ come compagne di un viaggio senza una meta prefissa da raggiungere. Aderiamo consapevoli a questo tragitto ondulante perché esso non annulla il nostro baricentro, non ci priva dell’asse d’equilibrio individuale. Mentre ci regala l’incontro. Aprendoci una all’altra/e, ci consente di abbeverarsi della parola altrui, restituendola infine a tutte, mutata, prismatica. In un mondo che (tuttora) non riconosce il valore della pluralità di voci di provenienze altre, questo impegno diventa implicitamente politico.
Prisca Agustoni: Livia e Melita hanno espresso con precisione e accuratezza il mio pensiero.
Vera Lúcia de Oliveira: L’idea è stata di Mia, ma è lei anche che unisce e ordisce di volta in volta le nostre poesie e voci, trovando percorsi comuni e inusitati. E talvolta, quando ci incontriamo, vedo che prendono vita intensa e coerente quelle poesie messe in dialogo aperto e alternato con le altre, come se fossero state dall’inizio pensate e scritte proprio per stare così, per stare insieme. Il ruolo di Mia è anche questo e la sua stessa casa è diventata il nodo in cui convergono i nostri percorsi e le nostre esperienze che lì si incontrano e si intrecciano. E lei, con affetto, ci accoglie e offre questa possibilità.

In Italia anche il teatro è diviso in compartimenti di programma e di pubblico ben precisi: Goldoni o il teatro sperimentale. La vostra esperienza d’ibridazione e ricerca poetica, anche se si esprime nel Teatro come canale privilegiato, potrebbe essere riconducibile anche a manifestazioni artistiche come quella di Jenny Holzer, che visualizza i suoi testi in installazioni luminose, o addirittura nelle performance dadaiste, o nella frammentazione del testo nei video di ultima generazione. Quali sono i vostri riferimenti artistici e letterari?

Mia Lecomte: Veniamo tutte da culture, esperienze artistiche, territori culturali e linguistici molto diversi tra loro. Dunque è difficile trovare riferimenti comuni. Direi che la chiave sta proprio nella contaminazione, nella scintilla artistica che scaturisce all’incrocio ogni volta nuovo, disassato (e mai autoreferenziale) dei plurimi cammini.
Helene Paraskeva: Non conosco Jenny Holzer ma i miei riferimenti vanno dal Carro di Tespi prima dei grandi tragici fino al Teatro dell’Assurdo e al Living Theatre. Il dadaismo l’ho conosciuto nella frammentarietà della poesia di TS Eliot. Nell’estate 2011 ho seguito al teatro antico di Epidauro la performance di Riccardo III con la regia di Sam Mendes e protagonista Kevin Spacey. Gli spettatori erano 9.000. Vedere Shakespeare interpretato nel teatro antico da attori moderni e diretto da un regista moderno, per me questo è teatro perché oltrepassa, sconfigge la storia.
Jacqueline Spaccini: Io faccio anche teatro di prosa, in Francia. In una compagnia si fanno i classici, nell’altra – di cui sono anche co-fondatrice – Les 400 Louves – facciamo testi portati sulle donne, diciamo «femministi», senza che questa etichetta evochi chiusure aprioristiche. Non ho particolari riferimenti artistici e letterari, probabilmente sono così dentro di me da non riuscire più a distinguersi.
Barbara Serdakowski: Nel mio caso particolare i miei riferimenti letterari personali sono sicuramente fortemente ancorati al teatro sperimentale, al surrealismo, al dadaismo attraverso personaggi come Ionesco, Beckett, Pirandello, Boris Vian, Tzara, Hans Arp, Man Ray, Breton, Sartre, Camus, Picasso, Picabia…; insieme, un miscuglio di letteratura sudamericana, a partire dal realismo magico di Marquez, e un impasto di poesia spagnola classicista, francese dei poètes maudits, dei sudamericani Neruda, o Borges. Apprezzo molto il lavoro di Milan Kundera, o Haruki Murakami...
Sarah Zuhra Lukanic: Secondo me il lavoro con la Compagnia è piuttosto istintivo, rituale. C’è sempre un ritiro prima dello spettacolo, che incide per la condivisione totale: il cibo, i figli, la quotidianità, i successi, le angosce, le perdite etc. È una specie di Lanterna Magica dove Grotowski costruiva nel laboratorio un teatro povero. Ecco, c’è una forma mentis che cambia, non c’è un modello. Secondo me, ognuna di noi arriva con il suo bagaglio, lo apre, mescola gli stracci. Una specie di scambio di vestiti, discreto ed elegante. Noi abbiamo una certa cura l’una verso l’altra. Forse è proprio questo che incanta e sorprende.
Melita Richter: La nostra esperienza di ibridazione si riflette sicuramente nella inconsapevole ibridazione di riferimenti artistici e letterari. Ognuna porta nel proprio bagaglio culturale dei flash di modelli/modalità artistiche di un altrove per lei significativo. Che senso avrebbe dire che io lo trovi nell’opera poetica di Josefina Dautbegovic, chi la conosce in Italia? O nelle performance poetiche di Darko Curdo nei caffè fumosi zagabresi? A chi importa dei versi dell’ebreo milanese-triestino Feruccio Fölkel, o di Etel Adnan, straordinaria poeta-scrittrice-pittrice libanese?... I nostri riferimenti artistici e letterari rimangono schermati da un riparo culturale personale che trae le radici nelle nostre biografie disseminate nel mondo. Le schegge di queste si raccolgono in movimenti corporei, in voci e suoni, luci e ombre che nascono rinnovati in ogni performance/spettacolo/recita della Compagnia.
Prisca Agustoni: Ognuna di noi porta con sé un bagaglio ricco e sfacettato di riferimenti, e non solo poetici o teatrali. In questo consiste anche l’originalità della Compagnia: non rispondiamo a un programma, a un Manifesto unico, ma abbiamo tutte un percorso di formazione (intellettuale e personale) fatto di ibridazioni e spostamenti (letture, viaggi, indirizzi, bagagli, oggetti), viaggi nel tempo e nella geografia, processi di ricerche interiori che universalizzano, in un certo senso, la nostra esperienza.
Begonya Pozo: La scrittrice migrante Najat el Hactmi dice sulla letteratura catalana: “O si contamina, o muore”. Anch’io la penso così e credo quest’idea riguardi tutte le letterature. Noi non siamo diverse: abbiamo bisogno della transnazionalità e della transculturalità, e ne siamo consapevoli. Senza ibridazione il discorso letterario è un discorso povero, inutile, morto.
Vera Lúcia de Oliveira: I miei riferimenti artistici e letterari sono tutte le esperienze che mi arricchiscono, che mi emozionano, sono aperta all’arte, alla letteratura e al mondo in generale, aperta ai nuovi mezzi di comunicazione e affascinata da tutte le possibilità di incontro con gli altri. Non ho mai pensato che la poesia fosse una limitazione, anzi, per arrivare a fondo e sempre più dentro l’anima delle cose bisogna avere fame e voracità di vita, ingordigia di libri, colori, paesaggi, opere d’arte, e volti, lacrime, gesti, sguardi, carezze, gemiti, offese. Questo è il mio alimento, è il nostro alimento.

All’estero, in America o in Olanda, il poeta è un professionista che lavora contemporaneamente per il cinema, l’editoria, il teatro, la pubblicità. La Beat Generation annovera autori che hanno collaborato anche con le rockstar o come drammaturghi in teatro. In Italia è difficile anche solo pubblicare testi di poesia contemporanea. Sentite il peso di questi limiti? Come si trovano dei percorsi alternativi come la Compagnia delle poete? Quali consigli date a un poeta che si ostina a vivere e lavorare in Italia?

Mia Lecomte: In Italia e altrove, nel momento storico in cui stiamo vivendo non c’è niente di facile e scontato. Non bisogna, credo, peccare di provincialismo esaltando le realtà fuori confine. Il mondo che avevamo imparato a conoscere non esiste più, sta deflagrando – ma anche rinnovandosi, ed è nostro dovere impegnarci a scoprire ed evidenziare i cambiamenti, al di là di quello che vogliono mostrarci – in tutti i suoi aspetti. Non esistono consigli, ricette, bisogna solo sintonizzarsi con l’apocalisse e darle onestamente voce, con coraggio e visionarietà. Ognuno nel proprio campo.
Helene Pareskeva: In Italia i poeti fanno qualche altra cosa per vivere. Pubblicare è difficile, essere accettati e riconosciuti è difficile. Consiglio di non perdersi mai d’animo, provare ogni strada possibile. Insistere. Diventare ostinati.
Jacqueline Spaccini: Non sono assolutamente in grado di rispondere a questa domanda, se non dicendo che sento il peso e lo porto tutto. Il percorso alternativo l’ha creato Mia, io ho avuto la fortuna di essere da lei contattata. Non ho fatto granché, a parte aderirvi con tutta la passione che mi contraddistingue. Nessun consiglio, ognuno ha il suo percorso. Ognuno fa le sue scelte. E l’Italia non è un posto meno buono di un altro. C’è molta mitologia a proposito della cosiddetta «eccellenza» estera.
Adriana Langtry: L’incontro con la Compagnia è avvenuto per me dopo la pubblicazione di alcune mie poesie su “El Ghibli”, rivista online di letteratura della migrazione alla quale qualche anno fa decisi di mandare dei testi. Cercavo uno spazio letterario che potesse accogliere i miei versi costruiti a partire dall’intreccio dello spagnolo, la mia lingua di origine, con l’italiano. Pensai che solo un mondo aperto ai migranti potesse cogliere il senso (a volte molto sofferto) di quell’ibridazione linguistica che rispecchia in qualche modo la forma mentis di noi immigrati. Fu una scelta azzeccata allora e continua ad esserlo oggi. L’incontro con le poete della Compagnia mi ha aperta a nuove esperienze artistiche e umane.
Barbara Serdakowski: Il consiglio è uno solo: produrre poesia viva. Leggere, viaggiare, vedere cose diverse, mangiare cibi diversi, svegliarsi ad orari diversi, pensare pensieri diversi e scrivere. Cercare collaborazioni con gli altri paesi, più particolarmente europei, giacché c’è un certo tipo di apertura comparatistica e quindi può risultare interessante pubblicare su riviste letterarie internazionali.
Sarah Zuhra Lukanic: Siamo certamente consapevoli che in Italia è tutto molto più difficile. Ma mi viene ora in mente un mio amico poeta e professore macedone, che mi diceva analizzando la Compagnia delle poete : “Voi siete anni luce più avanti di quello che succede nella poesia croata, macedone etc”. Non so se da altre parti ci siano esperienze del genere, quindi il nostro Bel Paese non è sempre così oscuro. E a volte è proprio nei crepuscoli che si nasconde qualcosa di bello e inconsueto.
Melita Richter: Non avrei consigli da dare, non mi è vicino il concetto di un/una poeta ‘professionista’, che ‘lavora per…’.
Prisca Agustoni: Vivo da sempre fuori dal contesto italiano (prima a Ginevra, poi in Brasile), conosco da vicino altre realtà letterarie, ma tutto sommato non vedo grosse differenze quanto al ruolo del poeta. Non ho mai conosciuto nessun poeta che vivesse del proprio lavoro di poeta; di narratore sì, mi sembra abbastanza frequente, anche in un paese come il Brasile questa pratica oggi è comune, ma non esenta da grossi interrogativi quanto alla libertà di scrittura della quale lo scrittore usufruisce. Anch’io non ho consigli da dare, se non di credere in quello che si fa, e di preservare perlomeno lo spazio della creazione dal mondo pragmatico e dall’idea del mercato.
Eva Taylor: Io invece sento fortemente il peso di questo limite, non perché credo che ci sia bisogno di un poeta professionista, a tempo pieno, ma forse a tempo determinato sì. Scusate l’espressione amministrativa, ma la uso per segnalare che un aggancio con il mondo pubblico è una sfida per qualsiasi artista, perché diventa più urgente la necessità di mediazione con un pubblico. Credo che un impegno con un teatro, una biblioteca, con un’Università in un programma ‘writer in residence’ creerebbe una maggiore mediazione a livello della società, in una forma di impegno non concettuale, ma tramite azioni concrete. Ed è questo che non vedo, perché la critica non si apre a queste nuove voci “strane”, “straniere”. Manca quindi un vincolo simbolico riconosciuto e espresso con la società. Con questo non voglio dire che noi possiamo rappresentare la società, ma sicuramente si potrebbe dare più attenzione – appunto simbolica – per quel discorso corale, i contatti linguistici che avvengono nella lingua italiana da alcuni decenni e di cui la Compagnia è un’espressione. Si tratterebbe quindi di dare visibilità al processo nel suo complesso.
Vera Lúcia de Oliveira: Sono nata e cresciuta in Brasile e vengo da una lingua in cui, nelle sue varie letterature, non c’è un confine netto fra poesia e musica, per cui per me è connaturale pensare alle due cose insieme. In Italia, invece, ho sentito una volta una nota poetessa affermare in televisione che è un orrore dire che una canzone (e si parlava di De Andrè) è una poesia. Per me lo è, molte canzoni di De Andrè sono vere poesie, così come, in ambito brasiliano, lo sono quelle di Vinicius de Moares, Chico Buarque de Holanda o Caetano Veloso. Non ho trovato per niente strano unire varie forme di espressione artistica, anche se, personalmente, per alcune sono proprio negata… Il bello dei nostri spettacoli è che ognuna dà quello che ha, quello in cui si trova a proprio agio, quello in cui finisce che rivela a se stessa una nuova dimensione della sua identità più intima e vera.

Dopo il ‘68 il Femminismo ha contribuito ad un radicale cambiamento, all’emancipazione del ruolo femminile. Il degrado culturale e morale attuale, sia politico che sociale, hanno confuso le idee e distorto alcuni presupposti e conquiste di quel tempo. Come si traduce la vostra posizione in riferimento a queste esperienze?

Mia Lecomte: La solidarietà fra esseri umani non è limitabile ad un discorso di genere. Ed è la solidarietà, insieme causa e risultato del degrado, a mancare, al di là della questione sul ruolo femminile. Il nostro progetto artistico prevede che quelle donne che incidentalmente siamo solidarizzino fra di loro e con ciò che le circonda tramite la poesia, esprimendosi e operando ciascuna con la propria femminilità a cultura (poetica) variabile.
Helene Pareskeva: Siamo consapevoli delle insidie dei cliché suoi ruoli precostituiti e le trappole delle etichette. Ognuna di noi vive le molteplici dimensioni di donna, madre, moglie e professionista e altre ancora. Ma la dimensione artistica ci fa trovare insieme e viviamo nella coralità questa esperienza. Quando siamo unite, iniziamo a parlare la stessa lingua, usiamo lo stesso codice. Ci capiamo e cerchiamo di creare una cosa comune e unica.
Jacqueline Spaccini: Mettendo la donna al centro della nostra esperienza. Non tacendo delle contraddizioni, mostrando le debolezze e regalando i punti di forza, la nostra umana e altrui esperienza di donne, che si traduce nelle parole fatte soprattutto per essere ascoltate e non lette.
Barbara Serdakowski: Per me è importante andare avanti. Unire il femminile con il maschile e non alimentare la guerra dei sessi. I ruoli si andranno definendo con l’attrito necessario per trovare i nuovi preziosi equilibri.
Sarah Zuhra Lukanic: Il Femminismo italiano ha avuto problemi nel cosiddetto passaggio di testimone, sono certa che c’è stata una chiusura tra privato e pubblico. Ma le nuove generazioni di donne stanno cercando di riparare.
Livia Bazu: Essere semplicemente donne, e poete, e vivere quindi la nostra persona e la nostra poesia, oltre che l’esperienza di “essere in Compagnia”, in modo tale da realizzare l’espressione il più possibile piena, profonda e libera di ciò che siamo: di per sé combatte già il degrado.
Melita Richter: Il Femminismo non ha contribuito all’emancipazione del ruolo femminile, ma del soggetto donna, dell’essere donna. Il ruolo cercano di fissarcelo sempre lo stesso: gerarchizzato e biologizzante (procreazione, nutrizione, cura, amore incondizionato, sopravvivenza). Ma le donne non ci stanno più e la poesia non accetta le subordinazioni. Io trovo che siamo forti perché parliamo/sentiamo/scriviamo versi percependo la realtà in modi diversi, se necessario anche sovversivi, intrecciando le nostre voci. È questo il modo in cui agiscono per lo più le donne? Non saprei. Forse non basta. Non basta percepire la realtà in modo diverso, bisogna non stancarsi di cercare la meraviglia, non perdere lo stupore. È con essi che resistiamo al degrado morale.
Prisca Agustoni: Come figlia, poeta, insegnante, madre, nuora, cognata, zia, moglie, amica, collega di lavoro, paziente di un medico ecc… cerco, in ognuno di questi ruoli, di mantenere la mia coerenza, di credere che un mondo più giusto lo si crea tutti assieme, uomini e donne. E siamo anche madri di figli maschi, quindi in parte direttamente responsabili per alcuni dei valori morali che questi avranno. Credo in un nucleo della mia persona, intoccabile, che nessuna esperienza esterna potrà mai cambiare, indipendentemente dal fatto che io sia nata donna e che viva ogni giorno gli aspetti più belli e quelli più duri di questa condizione.

Avete dichiarato che non è facile lavorare con un regista durante la realizzazioni dei vostri spettacoli teatrali. Difficile coordinare e imporre la propria conduzione a così tante autrici, che sono anche attrici e interpreti dei propri testi. Avete deciso di fare a meno, quando potete, di questa figura?

Mia Lecomte: Non è facile maneggiare teatralmente la poesia, in particolare in questo miscuglio inedito ed esplosivo di intenzioni. Questo è il motivo per cui dopo il primo spettacolo esplorativo, “Acromazie”, e l’esperienza de “Le altre” con l’Accademia di Brera, abbiamo sempre fatto a meno della collaborazione di registi esterni alla Compagnia. D’altra parte abbiamo figure di riferimento teatrali anche tra noi: Jacqueline Spaccini, Sarah Zuhra Lukanic e soprattutto Candelaria Romero, argentina diplomata all’Accademia d’arte drammatica di Stoccolma, che è autrice e regista teatrale ed esercita da anni in Italia; o l’amica Vesna Stanic, scrittrice e poeta croata che ha lavorato a lungo in cinema e teatro e che spesso ci affianca appunto con le sue competenze, pur non essendo a tutti gli effetti parte del gruppo. Io costruisco dapprincipio i copioni, dunque con una proposta registica già nella testa, assemblo i nostri testi poetici secondo vari criteri “teatrali”, e stabilisco le entrate e gli interventi musicali, che poi vengono provati direttamente con i musicisti coinvolti. Ma a parte questa prima fase, che è mia esclusiva competenza – ho un archivio di tutti i testi delle poete, che studio da anni, e dunque uno sguardo globale sulla loro opera –, svolgo da sola perché sarebbe altrimenti impossibile tracciare un percorso definito, riconducibile a una poetica unitaria, tutto il resto viene facendosi durante le prove, con idee e suggerimenti di tutte, e degli artisti che ci affiancano.
Helene Pareskeva: Personalmente ho trovato abbastanza utile anche il contributo delle registe, quando non sono mortificanti. Ma, ripeto, non antepongo la mia individualità, cerco sempre di imparare.
Barbara Serdakowski: Ci pensa Mia che è fortemente intuitiva e con grande delicatezza e rispetto assoluto amalgama il tutto dando spazio e visibilità a ciascuna di noi, sempre pronta a integrare quello che “funziona”.
Sarah Zuhra Lukanic: Forse il primo nostro spettacolo con una regista ci ha fatto capire come non vogliamo che sia uno spettacolo della nostra Compagnia. Lei era anche una brava regista, ma questo non esclude che non avesse capito il progetto. Comunque, secondo me siamo sempre pronte a varie collaborazioni, quindi si tratta di una regia quasi collettiva.
Livia Bazu: Sì, perché l’esperienza con direzione esterna ha mostrato che non possiamo entrare nella visione di un altro in quanto strumenti plastici, come gli attori in parte, giustamente, devono essere, e sanno essere; mentre la maggior parte di noi, da una parte e dall’altra, anche nella costruzione della visione (del senso, dell’atmosfera, del ritmo, ecc) della performance, aveva da ridire alquanto... Ponendoci come autrici entravamo in “conflitto di competenza”, non per gerarchia ma per materia.

Anche il video, potrebbe essere uno strumento espressivo congeniale alla poesia, facilitato dalla rapida e facile diffusione attraverso i social network e Internet. Non avete mai pensato di realizzare dei video, non solo come documento dei vostri progetti ma inteso come opera autonoma da inserire nei Festival nazionali e internazionali?

Mia Lecomte: Oltre al video-promo di Sarah Zuhra Lukanic, che ci racconta molto bene, la scenografia di uno dei due spettacoli che portiamo in giro, “Madrigne” è proprio un video realizzato per noi dall’artista tedesca Janine Von Thüngen: un montaggio delle riprese che ognuna delle poete ha fatto in maniera volutamente amatoriale nella propria quotidianità, uno spaccato della famosa “stanza tutta per sé”; venti microstorie che scorrono poeticamente, in cui sono stati poi isolati anche dei momenti di gestualità simbolica, una carrellata concentrata soprattutto sulle mani e sui piedi. L’abbiamo usato spesso anche da solo, in abbinamento a un montaggio vocale che ho costruito io in studio di registrazione, un assemblaggio delle nostre voci poetiche realizzato con criteri eminentemente musicali.
Sarah Zuhra Lukanic: Sarebbe bellissimo avere una video-storia del progetto, anche per analizzarlo meglio. Ma è un lavoro che richiede una dedizione non indifferente, dovremmo essere affiancate da una persona che ci segue.

10) In un periodo di cambiamenti epocali, geografici e culturali, il segreto della Compagnia è forse nell’unione del gruppo, nel rispetto e valorizzazione della diversità, che si può riassumere in questi versi di Sujata Bhatt: ”…perché questo è il luogo / dove non mi sento mai a casa / questo è il luogo / dove mi sento sempre a casa”. La poesia, ancora una volta, intesa come strumento di libertà spaziotemporale?

Mia Lecomte: “Casa” è una parola grossa, almeno per me. Coincide con “famiglia”, nel senso più esteso del termine. E dunque anche con la Compagnia. Si identifica con un “qui” sempre agognato, non avvicinabile che attraverso la poesia.
Helene Pareskeva: Sicuramente. Questo concetto si trova in tutte le mie risposte e scommetto riaffiori nelle risposte di tutte noi.
Jacqueline Spaccini: Il concetto di casa è molto aleatorio per chi come noi, come me, ha radici solo aeree. La prima – e ultima – volta che ho comprato una casa tutta mia (nella quale peraltro non abito che 20 gg l’anno) è stato 9 anni fa, all’età di 46 anni. Stessa età per la mia prima (ma non ultima) automobile. Persone come noi, come me, hanno una stanzialità di tipo gitano. Personalmente dopo due anni che vivo in un paese, divento insofferente e ho già voglia di ripartire e ricominciare altrove. Non ho eccessivo interesse per l’arredamento. Fondamentalmente le case in cui ho abitato hanno librerie e divani letto. La casa è un concetto mentale, è laddove si sta al caldo. Laddove ci si riconosce. La poesia, il palcoscenico, le strade, i treni, gli aerei, gli alberghi, il percorso. Le mie migliori poesie nascono lontano da una casa vera. Spesso in aereo o in treno.
Sarah Zuhra Lukanic: La poesia come salvezza. Io credo nella purezza del verso altrui. Quindi nello slogan che la diversità è ricchezza, e non sempre la diversità nazionale o geografica. Ma nel nostro caso la lingua italiana è il luogo per sperimentare le nostre diversità, come dice bene la poesia di Barbara Pumhösel: “Ci sono parole che hanno / la buccia in una lingua / e la polpa in un’altra / con un morso si attraversa / due mondi e il nocciolo / germogliando ne partorisce / una terza che contiene / noi, gli altri e il passato, / ci avvolge e ci sopravvivrà”.
Livia Bazu: Sì, ovviamente.
Melita Richter: Sì, uno spazio al di fuori di tutti i luoghi, colmo di dislocazioni variegate e spostamenti temporali; è il terzo spazio che offre dimora a soggettività in transito e in continuo movimento.
Prisca Agustoni: Senza dubbio. Libertà e piacere: fondamentali nella vita ma così difficili da preservare!
Begonya Pozo: Sì, sempre.
Vera Lúcia de Oliveira: La Compagnia delle poete mi ha dato la possibilità di vedere la parola, il verso, uscire dalla pagina del libro, uscire dal mio corpo e arrivare a toccare l’altro. Non avevo compreso così bene e intensamente questo potere fisico che ha la parola poetica non solo di suscitare emozioni, ma di vibrare nell’aria, colpire un volto, scontrarsi con un corpo, prendere le forme aeree di un passo di danza, avere movenze di donne vive e vere, agitarsi, aggirarsi, rompere le righe, provocare risposte, sollecitare azioni, donarsi con impeto e gioia.




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