lunedì 13 gennaio 2014

StorieReali presenta: INTERVISTA A STEFANIA TRINCHERO


                                                          "IN & OUT"


La psicologa Stefania Trinchero


Da molto tempo alcuni esponenti del mondo culturale e della società civile si attivano e s’impegnano in attività e progetti all’interno del carcere, ottenendo la partecipazione dei detenuti, l’attenzione dei media e l’ammirazione di coloro che si battono con coerenza e convinzione per le cause degli emarginati e dei confinati fuori dal mondo. Sorge a volte il sospetto che, passato il clamore dell’evento, tutto si acquieti e ognuno ritorni nei propri ambiti e alle solite abitudini quotidiane. Esiste però un piccolo esercito invisibile e silenzioso, che agisce nell’anonimato e di cui anche la psicologa Stefania Trinchero fa parte.
Nel carcere di Marassi di Genova, dove lei lavora per il dipartimento della Salute Mentale dell’ASL dal 1997, i suoi pazienti l’aspettano ogni giorno per essere ascoltati e non dimenticati. E’ proprio da questa esigenza che Stefania Trinchero decide di scrivere una storia tra una madre detenuta e una figlia, mettendo in atto un canale di comunicazione tra il mondo interiore dei detenuti e il mondo esterno, descrivendo l’evoluzione del suo impegno letterario.        
Il libro, “La carezza del sole. Una madre, il carcere, una figlia”, tra immaginazione e realtà, riassume in modo autentico anche se lirico gli aspetti della vita quotidiana dei detenuti , la disperazione dell’isolamento ma anche la speranza di un futuro diverso.     
                                
La scrittura si è rivelata per Stefania Trinchero uno strumento fondamentale, sia come risorsa personale nei periodi bui e cupi, nei quali si sentiva abbandonata dalle Istituzioni e priva di energie, sia come indagine approfondita per analizzare tutti gli elementi dell’esistenza in prigione, focalizzati dalla psicologa nel suo operare sul campo.
Le statistiche spietate ed aggiornate, che sottolineano il sovraffollamento e l’aumento dei suicidi e il fardello greve di un sistema giudiziario che non aiuta, anzi blocca i processi e i tempi esecutivi degli accusati, risuonano come dure proteste ma risultano anche come asettici rendiconti , rispetto all’impatto emotivo delle riflessioni e al radicale monologo della detenuta protagonista. La sua storia ci racconta dei suoi sbagli ripetuti, del fallimento autodistruttivo e degli affetti interrotti, ma anche dei sopravvissuti desideri e dell’umanità sorprendente, della solidarietà inaspettata che puoi trovare anche in un posto ai confini del reale come il carcere.                           
Non c’è retorica, esasperato buonismo o una missione di fede a spingere Stefania Trinchero e la forza, la determinazione a non mollare e ritornare dai suoi detenuti, non è insita in un sentimento sociale o in una ideologia politica. Il suo principale intento, è di innescare una riflessione psicologica ed umana dentro e fuori dal carcere. Stefania è sorretta da una enorme fiducia e speranza, che si alimentano e rafforzano nel tempo, partendo dalla necessità intrinseca di restituire una parte vitale di quell’esistenza, che è stata tolta e mai potrà essere restituita.                                
Durante l’ininterrotta ricerca di una libertà interiore pur all’interno di una cella, l’autrice dedica questa impresa letteraria a loro, i detenuti, protagonisti oggi, meno invisibili ed evanescenti, anche grazie a lei.

La copertina del libro "La carezza del sole",
editore Sensibili alle foglie 2013
Facendo interagire in un dialogo immaginario una madre in prigione con una figlia, mettendo in gioco tutte le problematiche psicologiche che ci possono essere in questo rapporto, sei riuscita a spostare il raggio d’azione emotivo anche al di fuori del carcere. Ti sei servita delle testimonianze dirette delle tue pazienti femminili per la storia o hai attinto anche alla tua esperienza personale di figlia e di madre?
La seconda parte del libro ha per oggetto il rapporto genitori-figli in modo più esplicito e diretto.
Il contesto carcerario della prima parte del libro scompare e viene solo raramente evocato nelle parole della figlia.
La cesura tra le due parti è voluta, perché mi piaceva l'idea di affrontare in un'unica soluzione due tematiche a me care.
Per quanto riguarda la relazione madre-figlia, raccontata dalla ragazza, l'ispirazione non mi è venuta dalle pazienti detenute ma soprattutto dalla mia esperienza di figlia prima, e di madre dopo.
Vedo che la dialettica relazionale tra madri e figli, per esperienza diretta, si ripete in tanti aspetti, di generazione in generazione, nelle stesse modalità, anche se, ovviamente, cambiano i contesti storici, sociali e i motivi di conflitto. Ma alcune variabili nel rapporto genitori-figli sono assolutamente identiche, soprattutto quelle oppositive e trasgressive.

Il ritmo sospeso e fermo del tempo in carcere condiziona anche le modalità e le dinamiche di relazione con i detenuti che vi vengono affidati? Le prospettive e la percezione sono inevitabilmente sfasati e squilibrati. Il passato è carico di colpe da rielaborare e il futuro, possibile e remoto, è difficile da ipotizzare. Riuscite a concentrarvi sul presente, giorno dopo giorno, ora dopo ora, per poter dare fiducia ed essere credibili come interlocutori?
Il ritmo del tempo in carcere è una variabile che condiziona enormemente tutte le relazioni e in particolare quella psicologica.
C'è il tempo dell'attesa del detenuto, il cui arrivo nella nostra stanza colloqui dipende non solo dalla persona chiamata, che magari in quel momento sta facendo altre cose, ma anche dalla polizia penitenziaria che è di turno quel giorno, con altre mansioni da svolgere, oltre alla nostra richiesta; a volte i tempi di attesa sono molto lunghi.
Anche la disponibilità della stanza colloqui, che usano tutti gli operatori dell'area trattamentale psico-educativa, non è sempre immediata, perché noi siamo molti di più delle stanze che abbiamo a disposizione.
Un altro tempo di cui di deve tenere conto è quello della pena che il detenuto deve scontare, soprattutto riguardo al lavoro di psicoterapia, che qualche volta si riesce portare a termine con grandi risultati e soddisfazione, in altri casi non può essere strettamente controllato perché a volte avvengono trasferimenti improvvisi di carcere, la fine di una pena anticipata con uscita in misura alternativa, tutti eventi che interrompono il lavoro psicoterapeutico in modo imprevisto.
Anche il tempo della seduta con il paziente non è come quello svolto presso un ambulatorio esterno perché può essere interrotto dall'arrivo del colloquio con la famiglia, o con l'avvocato o con il Magistrato della Sorveglianza, a volte per questo non si inizia nemmeno una seduta.
Nonostante queste criticità si riesce lo stesso a instaurare relazioni terapeutiche molto forti, proiettive, fortemente affettive e quindi con buone prognosi.

Ha fatto scalpore e notizia il progetto di produrre vino con l’aiuto dei detenuti, favorendo loro un futuro impiego dopo la detenzione, e i giornali hanno dato spazio ai progetti creativi e culturali dal teatro alla musica e al design, che hanno voluto coinvolgere chi deve scontare lunghe pene. Voi psicologi, che operate giorno dopo giorno nell’anonimato e senza riconoscimenti, vi sentite defraudati di attenzione rispetto a queste iniziative parallele?
No, per quanto mi riguarda, non mi sento affatto defraudata rispetto a tutte le proposte di lavoro o di studio pensate per i detenuti, anzi, ben vengano. Sono processi paralleli e devono esserci entrambi.
Più attività si propongono, soprattutto per quelli che escono e non hanno nulla, più diminuisce il rischio di recidive.


“Il mio intento non è solo quello di avviare una riflessione politica e sociale ma soprattutto umana, psicologica terapeutica […] A loro ( i detenuti) dedico questa storia”


Nel libro preferisci non soffermarti a lungo nella descrizione di quello che porta la tua protagonista femminile in prigione: i reati e il disagio emotivo, che gradualmente e inesorabilmente conducono alla carcerazione, quasi augurata, perché l’alternativa sarebbe stata la morte. Hai preferito concentrarti sul periodo della carcerazione per non sottrarre tensione narrativa e psicologica al racconto? Anche perché la tua esperienza di psicologa si concentra su questa fase, pur partendo obbligatoriamente da lontano?
E' vero, nel libro accenno appena al tipo di reato che ha condotto la madre in carcere e lo stesso riguardo alla pena da scontare. Non solo non mi sembrava rilevante ai fini della comprensione profonda delle dinamiche emozionali della donna, ma questo è proprio quello che faccio quotidianamente. I primi colloqui con i detenuti prescindono dal tipo di reato commesso: mi serve sapere, ad esempio, se usano o non usano stupefacenti, e solo in un secondo momento, se le persone lo vogliono raccontare, se ne parla.
Questo modo di procedere mi è venuto naturale nel corso degli anni, probabilmente nasce dall'esperienza professionale, oltre che umana, da parte mia di considerare inizialmente i detenuti come dei pazienti che potrei incontrare in uno studio fuori e quando, come di solito, si tratta di pazienti border-line, o con personalità antisociali e problematiche di dipendenza, il reato per il quale si trovano in carcere non è così fondamentale rispetto al loro funzionamento mentale.

Il vostro è un lavoro collettivo: oltre che tra psicologi, dovete relazionarvi e coordinarvi con gli altri assistenti sociali, i medici, gli infermieri, il direttore del carcere e gli agenti. Come riuscite a superare le divergenze e le inevitabili tensioni che possono nascere tra voi?
Il contatto degli operatori penitenziari con i Servizi Territoriali esterni (Ser.T., Salute mentale, U.E.P.E., Comunità terapeutiche e psichiatriche) non è sempre facile e immediato. Fare un progetto alternativo con programma individuale è fondamentale, ma i tempi spesso sono lunghi e le comunicazioni tra noi interni e l'esterno sono a volte frammentarie e discontinue, non per colpa nostra.  Anche i rapporti tra noi dell'èquipe interna non sono sempre facili, perché talvolta non ci si incontra affatto, dato che lavoriamo in giorni ed orari diversi per coprire tutta la settimana. Per questo motivo diventa particolarmente importante la supervisione che è un momento per noi, non solo terapeutico, ma anche di incontro.

E’ capitato un rifiuto totale e continuo di aiuto e di dialogo da parte di qualche detenuto? Come ti comporti in questo caso? Con i famigliari avete un riscontro? Sono coinvolti da voi nel sostegno e nella terapia?
Sì, capita che il detenuto rifiuti il colloquio, anche se non frequentemente: è comunque un suo diritto farlo. Quando accade, di solito lo richiamo una seconda volta e poi, se non scende sa che eventualmente può fare lui domanda per colloqui con lo psicologo, se lo ritiene utile o importante in un momento successivo. Di solito superato il rifiuto iniziale, arriva la richiesta. I familiari per noi psicologi penitenziari, non vengono mai coinvolti nelle terapie, è un compito dei Servizi esterni, soprattutto degli assistenti sociali.

Avete occasione di confrontarvi con i colleghi psicologi di altre carceri italiane e anche estere? A parte il drammatico sovraffollamento e la lentezza farraginosa del sistema giudiziario, riuscite ad aggiornare ed approfondire le vostre competenze e ricerche o si tratta principalmente di esperienza diretta?
Ci capita molto raramente di confrontarci con colleghi di altre carceri, solo in situazioni particolari in cui si rende necessario, in caso di trasferimento di detenuti che stai seguendo, affrontare con il medico che lo seguirà nel nuovo carcere alcune problematiche specifiche sulle quali stavi lavorando con il detenuto, ma nulla di più.

Personalmente insisti molto sull’importanza e il ruolo fondamentale della scrittura sia per lo psicologo che per il detenuto. In carcere la biblioteca è sempre aggiornata? I vostri pazienti hanno sempre accesso per rinnovare le loro letture che potrebbero anche essere un veicolo di comprensione e di scambio tra voi?
Sì, la scrittura è una terapia importante, per tutti, così come la lettura.
I detenuti hanno a disposizione una libreria molto fornita in 4 lingue, data la presenza di molti stranieri, e la biblioteca è sempre aggiornata grazie a progetti di collaborazione con le biblioteche del territorio comunale, anche i progetti - laboratorio di scrittura di poesie o di lettura- sono sempre ben accolti dai ragazzi.

Ogni anno il numero dei suicidi è tragicamente in aumento. Se avete il sospetto fondato che un vostro paziente sia a rischio, potete intensificare gli incontri per evitare un percorso di inesorabile autodistruzione?
Per i pazienti a rischio autolesivo c'è un Servizio Nuovi Giunti apposito formato da psicologi, che valutano la possibilità di alto rischio o il grado di pericolosità per terzi; qualora lo riscontrino, mettono il detenuto ad Attenta o Grande Sorveglianza, che significa un'osservazione costante da parte della polizia penitenziaria. Se la situazione è particolarmente grave, il soggetto viene ricoverato in una sezione di Sostegno specifica per questi casi. 

Per chi sconta la propria pena e inizia una nuova vita, esiste la possibilità di restare in contatto con voi e con gli altri detenuti che rimangono in carcere?
No, una volta usciti dal carcere si perdono i contatti con i detenuti; le notizie ci arrivano, eventualmente, dai colleghi che riprendono in carico i pazienti una volta fuori, ad es. i Ser.T, spesso qualcuno ci scrive e so che tra loro qualche volta nascono amicizie che si mantengono nel tempo.

Per una psicologa, è più facile relazionarsi con una detenuta donna che con un soggetto maschile?
Per quanto mi riguarda è più facile lavorare con detenuti uomini piuttosto che con le donne, per le quali il senso di fallimento e la lontananza dai propri figli è un dolore e un lutto a volte troppo forte da elaborare, è una tragedia.
Credo che proprio da questi vissuti sia nato in me il racconto La Carezza del Sole - Una madre, il Carcere, una figlia.


Il carcere di Marassi, Genova


La Redazione  di StorieReali dedica questa intervista a Nelson Mandela, che si è battuto, anche durante i trent’anni di carcere, per la salvaguardia della dignità e dei diritti di uguaglianza di ogni essere umano, senza alcuna distinzione o differenza.


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