mercoledì 5 novembre 2014

StorieReali presenta: INTERVISTA A LUCA ARMIGERO


                                                     "Sentire il mondo"


L'artista Luca Armigero

Non esiste molta differenza tra lo studio dell’artista Luca Armigero, rispetto agli spazi espositivi , dove vengono mostrati i suoi lavori. Si tratta di una trasposizione e di una collocazione di un ambiente, di una scenografia, più che un agglomerato di oggetti trovati e successivamente allestiti. La prima associazione è al “Merzbau” di Kurt Schwitters, creato dal 1920 al 1930, nel suo appartamento ad Hannover. Ma la differenza è sostanziale poiché, Armigero, trova, recupera, ma non interviene sulle sue installazioni, sulla loro forma e composizione. Emblematica di questa costante sottrazione , di reiterata sospensione e di mancanza di modifica manuale, è la “Selliera”, esposta all’Angolo 21. Potrebbe trattarsi di una reliquia di un western di Sergio Leone o di un saccheggio nelle scuderie di una remota fattoria, considerando il senso di usura e la polvere sparsa ovunque. Ed è la carica emotiva e narrativa evocate nello spettatore, più che lo spiazzamento provocato dall’installazione equestre, ad essere determinanti nella fruizione dell’opera.
Luca Armigero, lascia che sia il lettore a cercare i significati. Dalla lezione Duchampiana, è acquisito e sperimentato, che l’artista non è solo a compiere l’atto della creazione, poiché lo spettatore stabilisce il contatto dell’opera con il mondo esterno , decifrando ed interpretandone le qualifiche profonde e in questo modo aggiunge il suo contributo al processo creativo. Il riferimento al readymade di Marcel Duchamp è scontato ma ancora una volta, Luca Armigero, si dissocia dal significato originario citato. Il readymade è tautologico. Ciò vuol dire, appunto, che non significa nulla al di fuori e al di là di se stesso. La sublime neutralità, la presentazione che ha luogo ma non presenta niente, è un territorio già assodato ed elaborato da Luca Armigero, che passa direttamente alla dimensione etica del Sublime, il limite, l’estremo immaginati, che abitano nel Quotidiano.
Il vero protagonista dell’opera di Luca Armigero, non è il senso del tempo, ma la sensazione fisica del tempo. Non dunque, il tempo della storia né quello della nostalgia. Alla fine ci si dimentica di essere di fronte a qualcosa, pur nella sua evidente concretezza e sedimentate tracce materiali. L’artista blocca il meccanismo di rappresentazioni cui l’oggetto è connesso nel contesto quotidiano, nell’inerzia della praticità. Un “fermo immagine” del corpo dell’opera. Luca Armigero, non accede allo “straordinario” delle poetiche surrealiste, ma facendo una sosta nel quotidiano, nella sua ovvietà ed accettazione, acquistando coscienza e meravigliandosene. Non si è nell’opera, si è nel mondo. Sentire il mondo è Sublime. Non esiste un “linguaggio” della realtà. E gli artisti come Luca Armigero, cercano e hanno innescato dei processi percettivi, mentali, per far affiorare la componente non tradotta del Reale.
La scommessa rischiosa in atto di Armigero, è un reale tentativo di collocarsi al di fuori delle classificazioni imperanti e della crisi profonda che hanno caratterizzato la scena dell’arte, e non solo, degli ultimi anni. E come sottolinea l’artista e teorico Francesco Correggia, non si tratta di sapere dove stiamo andando, ma che cosa bisogna fare per ripristinare e ritrovare una posizione politica e insieme teorica intorno al modo di fare arte oggi. Il primo passo è nell’impegno ad approfondire, nel reale confronto con l’interlocutore e nel passaggio dalla dimensione estetica a quella etica rispetto all’opera, strada che Armigero, intende percorrere fino in fondo.
http://www.lucaarmigero.com/


Selliera,  2013 found objects,130x160x40


Anche per quanto riguarda il senso dell’utilizzo delle scritte esibite, siamo nuovamente lontani dalle proposizioni scritte dei Concettuali, intese come unica traccia dell’opera, per liberare il processo mentale, di concretezza, per mantenerlo nella sua astrazione ideale. Non c’è estetica del pensiero nella frasi esposte da Armigero. Non importa quale sia la parola usata, perché lo scopo è di unire, amalgamare il senso della parola al senso dell’oggetto. Non vuoi dare nome alle cose ma vuoi portare alla luce il senso della materia. Per te la parola è materia?
Credo sia l'esatto opposto. La frase è sempre importante nei miei lavori e mai casuale. Potremmo dire che sia essa stessa l'opera. Prendiamo ad esempio 'Reality is a prison'. Il testo fa riferimento al mio preciso punto di vista sulle cose che ci circondano. Ritengo che ognuno di noi fin da bambino cresca all''interno di un mondo fatto di regole scritte da altri, che ci garantisce la sicurezza di una vita comoda ma che ci rende incapaci di esprimerci liberamente, di maturare un personale percorso critico e di ribellarci. Per me parlare di materia ha senso solo riguardo all'arte del passato, per quei lavori il cui linguaggio, come diceva McLuhan, è esso stesso l'opera. Ritengo che oggi tutto sia materia a prescindere dalla profondità del contenuto. 

Tutti gli oggetti sono uguali davanti alla luce”, scrive Apollinaire. Quando Armigero illumina lo spazio della Galleria a Piacenza, affiancando due lampadari, uno antico e decadente, l’altro asettico e moderno, posti di fronte all’immagine fotografica di come fosse lo spazio vuoto prima dell’intervento, si tratta sempre di confrontarsi, per il visitatore, con i meccanismi e i condizionamenti della memoria visiva. Un’ indagine ulteriore, un modo di creare e visualizzare il tempo in relazione con lo spazio?
Nella fotografia non è ritratto lo spazio vuoto prima dell'intervento ma lo spazio originale dove era collocato l'oggetto prima che io lo prelevassi. Più mi guardo in torno e più mi convinco che viviamo in un'epoca di smaterializzazione delle cose, dei rapporti tra le persone, sempre più virtuali, e delle esperienze. Io per primo ho conoscenza di molte cose solo attraverso il mio computer. La ragione per cui ho deciso di esporre vecchi lampadari è perché ritengo che tutti noi siamo in pericolo. Stiamo umanamente sparendo alla stessa velocità con cui dimentichiamo le cose del passato e con la stessa facilità con cui cambiamo paia di scarpe la mattina. Gli oggetti parlano di noi più di quanto non riusciamo a immaginarlo, sono lo specchio della nostra anima, sono una grande metafora dell'esistenza. Nelle foto in mostra ho voluto che questi oggetti, ora al sicuro, restituissero questa dimensione di solitudine che è propria delle persone più povere ed in difficoltà. Non siamo più capaci di osservare il mondo, di distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è. Siamo assuefatti all'inganno. Nel silenzio di quei luoghi abbandonati ho trovato più umanità di quanta ne trovo nella ogni giorno sulla metro di Milano.

Nell’installazione all’ Ex ospedale Soave a Codogno, più che alle fredde strutture minimaliste, il riferimento slitta su Joseph Beuys, la cui opera non “sta” in un luogo, ma designa la località stessa. “Fonda essa stessa un luogo” come direbbe Heidegger. E’ una sospensione. La relazione con l’identità dello spazio, è molto potente nel tuo lavoro, come viene percepita ed eventualmente alterata dal fruitore stesso?
Il riferimento è all'opera di Felix Gonzales Torres. In realtà il mio è proprio un intervento minimalista, in quanto quella dimensione relazionale che è sempre esistita nelle opere dei maestri del passato, penso ad esempio cosa possano essere stati per i monaci in preghiera gli affreschi di Beato Angelico, o per un credente i mosaici di Ravenna, quella dimensione che Torres riesce a ridare all'arte utilizzando le caramelle colorate e rivolgendosi ai bambini, gli unici in grado di raccogliere il senso di quel lavoro, nel mio caso scompare. Si tratta di pezzi di plastica grigi in un ambiente architettonicamente freddo e completamente vuoto. Il contenuto in quest'opera è stato intenzionalmente fatto sparire.

UNTITLED, 2013; Plastic Sticks, dimension: 100x200x150cm;
Rebus Naturae curated by Chiara Cardini, Ex Ospedale Soave Codogno LO

La video arte, l’installazione, la fotografia sono state largamente adottate e sperimentate, in Italia anche con un notevole ritardo ed autocompiacimento, rischiando di esaltare ancora una volta il mezzo e non il contenuto dell’opera stessa. Come sei riuscito ad aggirare l’agguato e a non cadere nel tranello scenografico artificiale e nell’invitabile perdita di senso?
Non credo di essermi mai posto il problema di quale linguaggio usare. Per quanto riguarda l'installazione nell'arte contemporanea il linguaggio è indefinibile. Se ne parla solo in termini di senso, di contenuto e di ambientazione. Come dicevo poco prima, ritengo che a dover emergere nei miei lavori sia l'aspetto antropologico degli oggetti esposti, la provvisorietà e la collocazione  in uno spazio espositivo che possa restituirne il valore testimoniale di oggetti. Così come fossero esposti in un museo d'arti applicate e di arti minori. Trovo affascinante come un oggetto d'uso comune oggi possa perdere valore molto in fretta ma alla luce del tempo che passa questo diventi sempre più prezioso e raro.

L’esperienza di Luca Armigero come allievo e come docente dell’Accademia  ha arricchito dal punto di vista umano ed intellettuale il tuo lavoro artistico o, a causa del degrado, occorre tenere i due ambiti separati? Cosa consigli ad un giovane artista oggi come percorso di studi e formazione?
Credo di aver imparato di più come docente, in realtà come assistente, che negli anni di studio in accademia. Il mio lavoro è maturato mentre maturavo umanamente e penso di essere oggi solo all'inizio. Il consiglio che do agli studenti, i pochi italiani che restano in accademia, è di non avere fretta. La calma e la lentezza sono il segreto di tutto. Ma ritengo che a questo genere di considerazioni si possa giungere solo dopo aver corso tanto.

Il tuo modo di operare, attraverso dei progetti ed interventi site-specific, potrebbe contemplare in un futuro, l’uscita dal Museo e dalla galleria, per relazionarti con lo spazio esterno, quello urbano o del paesaggio naturale. Non hai mai immaginato, al di là della Land Art, un’interazione del tuo lavoro fuori, che possa comprende anche il territorio e le sue molteplici realtà storiche, architettoniche e sociali?
Nel 2009 ho realizzato una performance non annunciata a Milano, intitolata Fuori dalle mura, in occasione dello Start, l'appuntamento annuale di avvio della stagione di mostre dell'anno.  Ho scelto come posizione il marciapiede di via Ventura che dava sulla parete esterna di una delle gallerie che inauguravano quel giorno, senza averne l'autorizzazione. In quell'occasione molti visitatori incuriositi si sono fermati ad osservare quello stava accadendo. E' stata un'operazione fortunata che credo non si possa ripetere.

L’Associazione culturale ZONE – studi di ricerca visuale - teorie e pratiche dell’arte, di cui fai parte, oltre al recupero fondamentale di una dimensione etica, intende far dialogare fra loro le diverse discipline del sapere contemporaneo. Più che un progetto utopico, una reale necessità di cambiamento. Un impegno che unisce, in un paese dove l’artista tende ad isolarsi e a coltivare in solitudine la propria autoaffermazione. Cosa pensi al riguardo?
Se vogliamo possiamo leggere questo progetto come se fosse un'operazione d'arte. La nostra idea è di pubblicare scritti di artisti o rieditare vecchi testi fuori catalogo di poeti e filosofi, difficili da trovare anche su internet, ma anche testi inediti di autori contemporanei. Forse in questo senso si può parlare di utopia in quanto è veramente difficile oggi riuscire a trovare finanziamenti e il supporto necessario per portare avanti un progetto così ambizioso. Ritengo comunque che le grandi imprese spesso nascono dalle piccole azioni. 

Reality is a prison; dimension: 190x143x2,5cm – smalto su tela - 2013



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