giovedì 13 dicembre 2012

StorieReali presenta: INTERVISTA AD ALESSANDRO BELGIOJOSO


38° PARALLELO

Il confine ed il tempo sono gli elementi determinanti che caratterizzano il modo di fotografare di Alessandro Belgiojoso. Una riflessione ed osservazione più prolungata delle sue immagini fotografiche esposte dal 2005 ad oggi in Italia e all’estero, focalizza l’anello di congiunzione, al di là del tema trattato, nel cambiamento.

I maggiori condizionamenti per un fotografo sono la fissità, la staticità e il rischio della ripetizione, insite nello scatto. Alessandro Belgiojoso ha sviato questi ostacoli, decidendo di concentrarsi nell’indagine e nella ricerca sul mutamento sociale, ambientale, politico, architettonico, antropologico, oggi sempre più rapido e sfuggente che mai e anche per questo un obbiettivo notevole per qualsiasi fotografo.
La Corea del Sud e la Corea del Nord, divise da una linea di confine fissata sul 38° parallelo, che possiamo paragonare al muro di Berlino che separava la Germania, sono state scelte come teatro da visualizzare, una palestra fondamentale per mettere in atto il processo di visualizzazione del transitorio. Le due adolescenti coreane del Sud che ridono con i pupazzi in mano con lo sfondo dei grattacieli e dei poster con grafica anni 50’, sdrammatizzano l’idea della durezza e della competitività attribuite alla loro società.
Con i medesimi intenti e la stessa filosofia, Alessandro Belgiojoso affronta la sua città, Milano, e in entrambi i casi si concentra sui particolari e sull’abilità compositiva d’inventare situazioni significative ed inedite. E’ sempre il dettaglio che rende enigmatica e in bilico con il passato, Milano, la città meno provinciale d’Italia.
Alessandro Belgiojoso sembra voler comunicare, che il compito del fotografo non è più quello d’immortalare la realtà con delle immagini esteticamente soddisfacenti. Ogni volta, così, ogni sua fotografia ci racconta qualcosa di nuovo, una storia infinita che parla anche di noi, al di là di ogni confine.




Laboratori Ansaldo di via Bergognone, costumi per il ballo Excelsior alla Scala 
tratto dal libro “Inafferabile Milano”
Fotografie di Alessandro Belgiojoso, Racconti di Giovanna Poletti Spadafora – SilvanaEditoriale, 2012

Una delle fotografie più particolari che hai scattato a Milano, è quella nel laboratorio Ansaldo di via Bergognone per i costumi del ballo Excelsior alla Scala. Sembra una composizione astratta con una sovrapposizione dei tessuti e i riflessi cangianti della luce. Se non conosci la didascalia non è immediato e riconoscibile il contesto fotografato e questo rende questa immagine misteriosa e poco decifrabile. Una metafora di Milano? Questo risultato è anche significativo del tuo modo di fotografare? L’obbiettivo da focalizzare, non è mai totale e diretto ma frammentato e trasversale?

Questa fotografia a me piace tantissimo e l'ho capito già proprio nel cercarla e poi nel farla. Mi sono trovato a dover rappresentare uno dei luoghi simbolici di Milano: la Scala e tutto quello che le sta intorno.

Sono capitato ai laboratori dell' Ansaldo e mi sono trovato davanti il tutù, oggetto quasi simbolico che rappresenta l'essenza della Scala e di ciò che ruota intorno ad essa.
Il ballo Excelsior, in particolare è un bel ricordo d’infanzia, con i miei genitori e fratelli. Fu un grande evento per me, direi indimenticabile; Rivedere in quel contesto gli abiti indossati dalle ballerine, averli di fronte così, decontestualizzati dallo spettacolo, è stata un’emozione molto forte. Ho iniziato a provare a fotografarli, ma non è stato facile perchè volevo che non fosse immediatamente leggibile “Teatro alla Scala”, per evitare di diventare didascalico.

Nella domanda che mi hai fatto hai colto perfettamente il senso di quello che voleva essere la foto, “ho giocato sul vedo - non vedo”osando dichiarare il soggetto, ma senza essere troppo esplicito. Come nell'arte astratta, è un pò più difficile da decifrare.
Delle tante foto che ho scattato all'Ansaldo ne ho scelte ben due per il mio libro.

Trovo siano assolutamente una metafora di Milano: a prima vista non è chiara, ma una volta capito il soggetto è più semplice capirne il significato.


Festival del Cinema di Busan, Corea del Sud, 2006
Fotografia tratta dal libro: “Corea un viaggio impossibile?”
di Alessandro Belgiojoso, Maurizio Riotto e Sergio Romano – Francesco Brioschi Editore, 2007



ll progetto fotografico itinerante, partito dalla Sicilia della “Gurfa” (esempio di architettura rupestre di un complesso di 5 ambienti scavati in una rupe di arenaria rossa, un Pantheon scavato dall’uomo nel 1700 A.C.) rientra nel tuo intento di riunire la storia e la geografia per comprenderne i significati. Ma forse la natura è il soggetto che meno t’interessa per il tipo di ricerca che stai portando avanti?

In realtà in questo progetto ho fotografato un luogo, impropriamente chiamato grotta, che potrebbe essere l'archetipo delle cupole di tutte le cattedrali del mondo, la madre di tutte le chiese. E’ un Pantheon ma il doppio più antico. La forma è a cupola, alta, in proporzione aurea con la base. L'illuminazione è naturale grazie ad un buco al centro: d'estate si riempie di luce e d'inverno è vuota di luce.
Per me quindi non è natura, ma un'opera dell'uomo che ne rappresenta l'essenza dell’ingegno.
Questo tempio, non essendo costruito, ma scavato nella roccia, si è conservato nei secoli senza poter essere distrutto proprio dall'uomo.

Per individuare le immagini più significative come ti comporti? Vivi in un paese per un certo tempo? Fai dei sopralluoghi e delle ricerche storiche? Interroghi delle persone del posto? Per quanto riguarda le due Coree, come ti sei documentato prima? Il rapporto umano con le istituzioni e i cittadini rimane determinante?

Un fotografo in genere fa molti scatti, ma poi alcune immagini hanno una qualità più alta e maggior consistenza rispetto alle altre. C'è una selezione quindi. L'immagine dev'essere innanzitutto bella, ma poi tra le tante belle devi scegliere, come in un puzzle, quelle che raccontano meglio il tuo messaggio, o anche quelle che stanno meglio con le altre.
Per questo spesso mi consulto e, credo che da solo non potrei scegliere, ho bisogno di confrontarmi con persone diverse che hanno visioni diverse; Possono anche essere (anzi, e meglio che lo siano) persone che non capiscono di fotografia, potrebbe essere anche un bambino. Gli altri possono farti capire come vedere le immagini dal di fuori, ed è molto interessante lo scambio.
Ricordo a proposito, una frase: - “una fotografia non è mai finita” -, ognuno ci vede qualcosa d'altro.

All’inizio di un progetto fotografico faccio sempre dei sopralluoghi, a volte ci vivo per un periodo in un paese. Per esempio in Sicilia ci sono tornato periodicamente per più di un anno, l'ho vista in tutte le stagioni, con i diversi climi, riarsa d’estate e vivamente colorata anche d’inverno; In Corea ci sono tornato più volte ma lì era interessante un “viaggio impossibile” tra il confine del Nord ed il Sud, devi passare da Pechino!

Un'altra cosa che faccio, all’inizio di un progetto sono delle ricerche, anche storiche quindi, leggo, leggo e immagino... A volte si uniscono idee che apparentemente non c'entrano tra loro, diciamo che ci vuole anche fortuna! L'essenza del progetto della Gurfa, “la contemporaneità della preistoria”, è nata proprio leggendo un libro sulle favole dei Nibelunghi che hanno origine nell’antica Persia; è da lì che è nata l'idea.

Milano ha perso in parte la sua identità. Tu sei riuscito ugualmente a recuperare le tradizioni e il valore dell’artigianato e delle botteghe che hanno l’hanno caratterizzata, pur non ignorando visivamente il cambiamento urbano e sociale in atto nella sua trasformazione. Degrado e arte, professionalità e disoccupazione, isolamento e comunità, rinnovamento e chiusura, come sei riuscito a trovare una sintesi visiva? Cosa pensi del modo di fotografare le città di Gabriele Basilico, molto diverso dal tuo?

Gabriele Basilico è un grande maestro e ho rispetto totale per la sua scuola, lui fotografa con un rigore che non ho. Il non essere “in bolla”, questo mio non-rigore, tutto sommato, non mi dispiace.


Credo che nel mio libro venga fuori una bella Milano, ritrovando umori e luoghi diversi da quelli di cui la gente è scontenta, in questo periodo difficile. Io sono il primo a piangersi addosso, a pensare che Milano non è più la città della cultura, però penso sia interessante riuscire a trovare il coraggio per riabilitare il passato senza aspettare dieci anni. Ad un certo punto sembrava che la Milano “da bere” rappresentasse il peggio, in realtà gli anni Ottanta hanno avuto molti lati positivi ed un grande spirito d’iniziativa. Eravamo troppo giovani per essere dei protagonisti.
Anche gli anni Settanta sembravano morti per sempre, ma dopo dieci, vent'anni il passato torna in voga, tra un po’ vedrai che torneranno anche gli anni Novanta!

Tu collabori ed esponi allo SPAZIOFARINI6 di Giovanna Lalatta, pur portando avanti dei tuoi progetti. Per un giovane che vuole seguire la tua strada non specializzandosi in un genere specifico, cosa consigli? La gavetta nell’ambito della fotografia commerciale e pubblicitaria, nella moda o nel design può servire o è meglio prendere lezioni da un fotografo maestro?

Quando io ho iniziato, il mondo della fotografia stava riordinandosi, per non dire rivoluzionandosi.
Innanzitutto per l'avvento della fotografia digitale: la tecnologia ha cambiato l'accesso alla fotografia, io stesso ho iniziato a fotografare perché con dei soci avevamo un sito internet e non potendo permetterci di acquistare le immagini, ho iniziato a girare con la macchina fotografica in tasca per fare alcuni scatti e questo mi ha permesso di approcciarmi all'uso quotidiano della fotografia.
Il digitale ha avuto anche un grosso impatto sulla distribuzione della fotografia, i giornali hanno iniziato ad avere un rapporto completamente diverso con i fotografi. Oggigiorno le strade sono piene di migliaia di fotografi, quindi la fotografia non ha più il valore che aveva negli anni Settanta, quando l'unica documentazione degli eventi era racchiusa nella pellicola di chi andava, e tornava, da un reportage.

Poter fare della fotografia qualcosa di artistico, rendere preponderante il messaggio sul soggetto, trasmettere il pensiero di chi l'ha scattata è un altro discorso, ed è quello a cui bisogna mirare.
Una volta ho sentito raccontare da un collezionista “considero arte anche qualcosa che ho già visto fatto, ma che mi dica una cosa nuova: se uno disegna oggi un cerchio, lo stesso cerchio che l'uomo preistorico ha disegnato nelle caverne, ma riesce a dirmi qualcosa di nuovo ed interessante, con la sua personalità, lo considero un artista”.

Credo comunque che ci siano moltissimi fotografi, “two is a crowd”, quindi i giovani fotografi devono sapere che si dovranno confrontare con altri cento giovani colleghi, spesso molto bravi e/o aggressivi.
Se il tuo scopo è essere il migliore, guadagnare molto, o venire acclamato basandoti quindi su soddisfazioni che ti arrivano dall'esterno, la strada diventa molto dura.
Se invece fotografi per piacere, se sei consapevole del fatto che ci sarà sempre qualcuno che pensa che tutto ciò che fai è gia stato fatto, se riesci a dimenticartene e ad andare avanti, con l'umiltà di capire i tuoi limiti e la caparbietà di portare avanti i tuoi obbiettivi, allora è giusto che tu continui a fare il fotografo.
Io stesso dopo la mia prima mostra con il pierre Maurice, sono tornato in ufficio con la paura di non essere capito, il mio non era un mondo miglior o peggiore, ma semplicemente un mondo diverso.

Secondo me la gavetta è fondamentale, il consiglio che do ai giovani aspiranti fotografi è di trovare qualcuno che vi possa insegnare ma dedicare molto tempo anche a leggere e guardare fotografie e libri.
Io ho imparato tantissimo dagli altri e imparo tutti i giorni.

Hai viaggiato moltissimo. Oggi il panorama è sconfinato e lo scenario è immenso. Giovanna Lalatta, ottima fotografa, oltre che gallerista ed insegnante, ha studiato in Francia e negli Stati Uniti. Quale è stata la tua formazione prima di iniziare ad esporre ufficialmente? Hai fotografato anche da bambino o questa passione è tardiva?

Ho avuto la fortuna di avere dei buoni geni in famiglia: la mia nonna, Margherita Belgiojoso, era pittrice, mio zio Lodovico architetto, la zia, Gin Belgiojoso Jacini, anche lei pittrice. C'è evidentemente una certa predisposizione all'arte in famiglia.

E' vero, non ho studiato fotografia, ma ho letto molti libri e ho conosciuto persone che mi hanno aiutato ad aprire gli occhi. Ho fatto poche scuole di fotografia, ma molti workshop, il primo, proprio da Giovanna Lalatta. Il titolo era:“Linguaggio della fotografia” mi è servito per capire cosa vuol dire fotografia: non solo il semplice scatto, ma un linguaggio;anche una fotografia buia può raccontare tantissimo, se tu hai qualcosa da raccontare e se lo riesci a raccontare, se non c'è una buona qualità la fotografia non emerge, ma ciò che conta davvero è il contenuto, se non dici qualcosa di veramente importante non sfondi.


Il progetto “100 Cascine 2001 ad oggi” (www.100cascine.it) di cui sei testimone visivo, rappresenta nella sua interezza la volontà di salvaguardia e valorizzazione, non solo di un patrimonio architettonico e ambientale del nostro territorio, ma soprattutto una parte della nostra identità che non può essere abbandonata e trascurata. In questo caso le tue foto, sono il passato, il presente e il futuro delle Cascine. Come si riesce ad esprimere visivamente queste caratteristiche e necessità?

Il mio impegno nel progetto delle cascine non è legato al linguaggio fotografico, è piuttosto un progetto con una rilevanza culturale.
Non è quindi l'espressione della mia personalità tramite la fotografia, ma è un po' come dici tu, una ricerca di salvaguardia di un enorme patrimonio storico che abbiamo intorno a Milano e in particolare per me molto importante perchè legato alla mia famiglia.
Questo patrimonio è stato però superato dal tempo: le cascine, come la fotografia analogica, per la maggior parte servono più come prima. Puoi tenere una bella macchina fotografica per bellezza, ma ormai è più comodo fare anche foto con il tuo telefonino che hai sempre con te; lo stesso vale per una vecchia cascina: la parte non più utile all’agricoltura viene trascurata, ha costi di mantenimento molto alti e quindi non conviene più usarla come prima.
Io credo sia importante fare uno sforzo per dare alle cascine una nuova vita, senza però snaturarle, dando loro un nuovo uso utile e moderno, compatibile con la loro forma e la loro natura.
La ricettività turistica è senz'altro la strada più semplice e importante, ma anche trasformarle in luoghi di lavoro, residenze temporanee, o anche luoghi dove le aziende possono promuovere i loro prodotti; - perché una Barilla non potrebbe ricreare un mulino bianco, vero, in una cascina? -
Tutto questo implica una ristrutturazione, non solo del mattone, ma anche della mentalità del proprietario e del conduttore. Bisogna andare a cercare nuove persone che possano tornare a rivivere la cascina, un luogo ormai largamente disabitato e sottoutilizzato, bisogna inventarsi nuove funzioni.
Expo è sicuramente la prima grande occasione temporale per riutilizzare questo patrimonio.
Noi tutti a Milano vivremo un momento un po' speciale, la città riceverà moltissima gente e non c'è spazio per tutti, quindi si inizierà a reinventare gli spazi, per rispondere alla grande richiesta di alloggi. La cosa importante, però, è che tutto ciò che verrà fatto per l’ Expo dovrà avere una sostenibilità di lungo periodo, altrimenti sarebbe troppo oneroso dover ripristinare tutto.


Raccontaci la tua esperienza fotografica e non durante il viaggio che hai fatto nella Foresta del Gabon con Gustavo Gandini lo scorso anno.

E' stata una bellissima esperienza su più piani.
Ho visto posti dove non ero mai stato, che ho raggiunto dopo un lungo viaggio: prima in aereo, poi in treno tutta una notte e in macchina tutta una notte e infine una settimana di cammino nella foresta per raggiungere una barca che non è potuta salpare a causa del caldo, che ha prosciugato il fiume!
Abbiamo raggiunto una destinazione lontanissima e remota, ma assolutamente naturale.
Un posto dove l'uomo non ha lasciato traccia: ho camminato su sentieri che gli elefanti si aprono, tra alberi centenari.
Gustavo Gandini ha una grande passione per la foresta, una grande costanza nella lotta contro chi, per primi i cinesi, ricerca le concessioni del governo per sfruttare le risorse naturali.

E stata un'esperienza importante dal punto di vista umano, ma anche da quello fisico: camminare una settimana nella foresta con sulle spalle tutto ciò che hai, compreso il materiale fotografico, non è una cosa che capita tutti i giorni! Anche mia moglie, la fotografa Albertina D’Urso, mi ha stupito, con la sua resistenza.

Durante il viaggio ho avuto la fortuna di trovare, in una campo attrezzato di ricercatori americani, anche del National Geographic, dell’attrezzatura fotografica abbandonata che mi ha permesso di scattare con un bel cavalletto anche nella giungla!

Che dire.. sono state solo tre settimane, ma belle intense!


Particolare della foresta del Gabon dalla serie “Primary Forest” 2011


1 commento:

  1. bellissime foto, ottimo il fotografo Alessandro Belgiojoso e bella intervista
    Gaetano

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