FUORI CAMPO: OSSERVARE CON L'IMMAGINAZIONE
Maria Mulas, I contadini di Malta, 1974 |
Il modo d’intendere, decifrare e catalogare gli artisti che lavorano con la fotografia, è decisamente cambiato rispetto al passato. Risultano ristrette e riduttive le definizioni adottare per circoscrivere un genere, uno stile, una ricerca. Questo spiazzamento e allargamento di confini sono accaduti, quando il mezzo fotografico è stato inglobato, sia a livello tecnico che espressivo, in manifestazioni come l’Arte Concettuale, l’installazione, la Performance e la video arte. E’ sufficiente ricordare artisti come John Baldessari, Cindy Sherman, Kossuth o Gina Pane.
La ricerca e il percorso fotografico di Maria Mulas, rientra perfettamente nella tipologia difficilmente etichettabile e definibile.
Critici e giornalisti hanno scritto sul suo lavoro e sulla sua attività espositiva in Italia e all’estero ma questo non diminuisce, anzi accresce il mistero e l’indecifrabilità dell’artista. Lei stessa con le sue dichiarazioni è depistante. Se risulta infatti desiderosa di decifrare e raccontare il mondo e la storia che ci rappresentano,allo stesso tempo, il suo interesse ed obbiettivo, si focalizzano per “catturare” le tensioni e le energie e nei suoi ritratti vuole evidenziare i pensieri sommersi dei suoi personaggi.
Per ottenere i suoi scopi, il suo operare si divide inevitabilmente in due tempi. Lo scatto fotografico, la messa in scena dell’opera, per poi definire in un secondo tempo la composizione. Il clic può essere intuitivo ma la definizione dell’immagine finale, è progetto teorico. A quel punto, tutto diventa possibile, coniugare naturalezza e artificiosità, semplicità e complessità, passato e presente, il reale visibile e il “Fuori campo”: titolo di una mostra milanese, al Liceo di Brera, che invitava infatti, ad osservare anche con l’immaginazione.
La fotografia può diventare una trappola incantata, come quando catturi una farfalla, ottenendo un fermo immagine ma cristallizzando il reale rappresentato. Maria Mulas aggira l’ostacolo, ricordando come liberarci da quello che Andrè Breton chiamava “posizione realistica”, evitando l’ansia dell’attimo fuggente.
Quando lei fotografa un particolare architettonico, un volto o una città, interpreta e ribalta i tempi, la prospettiva, l’inquadratura, gli elementi della visione, a suo piacimento, come se utilizzasse una cinepresa e i suoi fotogrammi facessero parte di un film. C’è una sua fotografia che rappresenta un interno non ben identificato, tutto avvolto nelle luce fluorescente verde del neon, dove qualcuno o qualcosa transita con un guizzo. La sua domanda costante non è “Cosa succederebbe?” ma “Cosa sta succedendo?”
Maria Milas, Frezee, 2007 |
Il tuo percorso creativo iniziale, prende avvio a Milano negli anni 60’, con la realizzazione di fotografie che sono ispirate al ritratto e al teatro. La storia raccontata in tempo reale e in tutta la sua fisicità ma con l’evocazione continua dell’invisibile e dell’inganno delle apparenze. Questa esperienza ha forse condizionato il tuo modo di fotografare mai in modo diretto ma trasversale per cogliere l’inedito e il camuffato, i lati meno evidenti e scontati?
La “scuola” di Giorgio Strehler, è stata fondamentale anche per me, mi ha insegnato il rigore e la disciplina che sono essenziali, in quella situazione speciale. Ad esempio durante il suo spettacolo: “Nel fondo di Gorki”, le luci erano bassissime e dovevo fotografare senza flash, la visione intera della scena, non certo solo i volti degli attori. Hai a disposizione mezzo secondo e questo ti obbliga ad essere meticolosamente efficace per ottenere il massimo risultato. Come per la fotografia, anche il teatro ha la potenza della diretta ma con un background carico di prove, esperimenti ed analisi, per arrivare al risultato finale voluto.
Una delle tue prime mostre storiche, è alla galleria Diaframma a Milano nel 1976, caratterizzata da un impegno ed impronta sociale, visto anche il contesto di allora. Il tuo progetto è stato di visualizzare un mondo borghese che rimane immutato, non cambia, oggi come allora, protagonista imperturbabile della vita reale che gli passa accanto. ma non lo coinvolge. Questa idea potente e provocatoria come si realizza senza cadere nella retorica e nel facile moralismo?
La mostra “Fotografia 1970-76” alla Galleria Il Diaframma era composta solo da Ritratti della borghesia- Compiaciuti di essere fotografati, i protagonisti non si rendevano conto di risultare tutti uguali, la mia operazione dietro le quinte, è stata di enfatizzare la loro omogeneità. Il risultato è piuttosto inquietante, poiché invece di esaltare la loro individualità, ho sottolineato il lato perverso del loro senso di appartenenza, che li catapultava fuori dal mondo reale, lontano dagli sconvolgimenti sociali e politici che non li riguardavano. Molti infatti sono poi scappati in Brasile durante gli anni di piombo, per poi ritornare con l’avvento di Berlusconi.
Esiste ovviamente un’altra storia, ho infatti anche fotografato i volti dei lavoratori in ogni parte del mondo, mani e visi straordinari, che raccontano senza parole, delle storie intense ed autentiche.
A metà degli anni 80’, è avvenuto lo “sdoganamento” della fotografia, entrata ufficialmente in tutte le fiere e le collezioni d’arte più prestigiose. Questo fenomeno ha però dato spazio purtroppo alla quantità piuttosto che alla qualità delle offerte. Con la crisi c’è stato poi un assestamento regolatore. Cosa consiglieresti di acquistare, a chi possiede già dei tuoi lavori?L’ultimo cinese emergente o una foto in bianco e nero di Lee Miller?
Il mio consiglio è di scegliere chiunque compie e porta avanti una ricerca e che riesce a trasmettere emozione. Per quanto mi riguarda non mi sono mai considerata una vera fotografa nel senso tradizionale e convenzionale del termine e a volte ho perfino odiato l’apparecchio fotografico, che è semplicemente il mezzo più immediato per raccontare, strumento di narrazione, come un film o un libro.
Ugo Mulas, impossibile non citarlo, aveva sempre in mente questa dichiarazione del grande fotografo Robert Frank: “….Volevo essere impersonale, essere uno che passa di lì per caso ed invece poi oggi, mi sono reso conto che le fotografie sono una presa di coscienza e non una registrazione, una presa di coscienza come lo è qualsiasi autentica operazione conoscitiva”. Abilità tecnica (oggi per altro garantita in parte dalla tecnologia) e consapevolezza dei contenuti. Come si arriva a questi risultati? Attraverso una scuola professionale, facendo l’assistente a un grande fotografo o attraverso l’esperienza sul campo?
Sicuramente una continua e lunga esperienza sul campo, non dando mai nulla per scontato.
La tecnica è vitale e necessaria, ma ho preso le distanze dai fotografi che discutono degli ultimi modelli, che confrontano gli obiettivi e passano delle ore nei negozi specializzati. Ho frequentato invece i letterati e i pittori, quelli legati alla Galleria Marconi, Pardi, Tullio Pericoli e Tadini, che aveva anche una grande capacità critica, oltre che essere un abile pittore Queste scelte umane ed artistiche, mi hanno reso più libera a livello espressivo e ampliato i miei orizzonti in tutti i sensi.
Si è passati dalla camera oscura al digitale, perfino al telefonino, anche se ci sono artisti come il francese Cyprien Gaillard che riscopre la polaroid nella sua mostra nella caserma a Milano, curata da Massimiliano Gioni. Tu continui ad usare la stessa macchina di sempre o hai sperimentato anche con le nuove tecnologie e il computer?
Ho sempre lavorato con la Nikon, cambiando l’obiettivo a seconda di quello che vuoi ottenere.
Ma non ho mai sfruttato i programmi digitali attuali che deformano e cambiano le immagini, che alterano la rappresentazione, per essere qualcosa d’altro.
Cosa ne pensi dell’adozione diffusa della “poetica della distruzione”, il culto delle rovine e del degrado, un post-romanticismo decadente, che ricerca il luogo abbandonato e fatiscente? Per le tue foto in architettura, ne sei mai stata attratta, modo?
Oggi tutto diventa spettacolarizzazione ed esiste il rischio che l’estetica macini e appiattisca ogni evento ed avvenimento, anche il più tragico. L’attrazione verso la distruzione, è forse dettata dal meccanismo inconscio della catarsi della sovraesposizione e della rimozione. Nel mio caso, quando a Gibellina, mi è stato chiesto di fotografare la natura sventrata dal terremoto, ero perfettamente consapevole di essere testimone di una dramma e che per coglierne l’autenticità devastante, dovevo immergermi in quelle ferite strazianti, senza filtri ed indugi, in quelle deformazioni, che neppure il tempo, avrebbe cicatrizzato.
1971-1972 “Le Verifiche” è un progetto di Ugo Mulas, che realizzò per interrogarsi sulle operazioni intrinseche all’atto di fotografare ma sottovalutate e ripetute meccanicamente. Estrapolate singolarmente, evidenziano un’indagine espressiva e strumentale che molti fotografi oggi accantonano o non vogliono affrontare. Il senso della didascalia fotografica, la ripetizione, il tempo, lo spazio, l’autoritratto, la rottura con il passato e il sublime vetro rotto sovrapposto all’inquadratura come omaggio a Duchamp. La foto di tendenza glamour patinata senza ironia è tristemente diffusa oggi. Forse bisognerebbe ritornare al recupero delle “Verifiche”, come nella scrittura delle “Lezioni americane” di Italo Calvino, che servono poi ad affinare il talento quando è presente. Sei d’accordo?
Mio fratello è stato un grande maestro anche per me e mi aveva confidato, che se avesse avutoancora del tempo a disposizione, l’avrebbe utilizzato per concentrarsi sulla ricerca e per dare senso e chiarezza a tutte le operazioni teoriche e tecniche che sono insite nell’atto fotografico ma che facciamo finta d’ignorare o non abbiamo l’onestà intellettuale e la profondità necessarie per poter analizzare.
Tutti i fotografi e chi si occupa seriamente di visione, prima o poi, incappa e si deve confrontare con le “Verifiche” In fondo, si tratta di mettersi in gioco, soprattutto con se stessi, per raggiungere quell’autenticità e quell’unicità, che traspaiono poi, in tutti i progetti fotografici.
Nessun commento:
Posta un commento